Abdullahi Ahmed ha iniziato il suo viaggio verso l’Italia nel 2008 dopo aver abbandonato il suo paese la Somalia. Oggi Ahmed è mediatore linguistico e aiuta il processo di integrazione dei migranti basando la sua azione sul dialogo
- Nel 2008 Abdullahi Ahmed abbandona la Somalia alla «ricerca della felictià» in Italia affrontando un viaggio «spaventoso, ma pieno di speranza».
- Dopo l’arrivo in Italia, Ahmed è diventato mediatore linguistico e nel 2016 ha ottenuto la cittadinanza italiana. Il suo lavoro si basa sulla costante ricerca di dialogo tra chi arriva e chi accoglie.
- Sempre con quest’obiettivo in testa, Ahmed ha avviato un progetto di scambio tra scuole somale e italiane premiato dall’Organizzazione internazionale per i migranti.
Sono passati 12 anni dall’estate in cui la “ricerca della felicità” mi ha spinto da Mogadiscio fino all’Europa. Prima il deserto, poi una barca di fortuna, infine Lampedusa.
I “viaggi della speranza” sono spaventosi, ma la speranza è forte, tenace, è dura a mollare. Dall’isola ci hanno poi trasferiti a Settimo Torinese dove, da giovane somalo che si era allontanato dalla famiglia, sono cresciuto, ho imparato l’italiano e mi sono dato obiettivi concreti da raggiungere. Uno alla volta, come i passi quando si impara a camminare, fino a diventare, nel 2016, cittadino italiano. Negli anni mi sono confrontato e scontrato con il mondo dell’accoglienza e con ciò che viene chiamato “integrazione”, tanto che ben presto una domanda ha occupato i miei pensieri: come può il “rifugiato” passare da oggetto della discussione a soggetto portatore di idee, andando oltre alla logica dualistica dell’accogliente e dell’accolto?
L’importanza del dialogo
Nella mia “nuova” vita ho avuto la fortuna di essere un mediatore culturale facendo da ponte tra le culture; da una parte c’erano l’Italia e l’Europa, luoghi di riscatto e di opportunità, dall’altra la Somalia e l’Africa, terre che mi hanno trasmesso valori, e io ero lì, in mezzo, ad accompagnare persone e speranze, sempre però visto come lo straniero, colui che arriva da lontano, oggetto di una domanda ricorrente, che può sembrare banale, «di dove sei?» ma che in realtà ne sottende un’altra: «Perché tu non sei italiano, vero?». Chi ha un background migratorio come me, se lo sente chiedere quasi tutti i giorni.
In questi anni il mio lavoro è andato proprio nella direzione di sdoganare il concetto di “apparenza” per sostituirlo con quello di “appartenenza”, provando a spostare l’attenzione dal tema dell’integrazione a quello dell’interazione. Sembra un gioco di parole, si toglie un G, ma la differenza è immensa; non ci si deve perennemente integrare in qualcosa, ma bisogna interagire alla pari con quello che ci circonda. Grazie alla mia associazione GenerAzione Ponte, fondata nel 2018 insieme ad altri rifugiati, seconde generazioni e italiani, abbiamo dato vita a iniziative mirate a diffondere la storia, l’arte e la cultura italiana tra i giovani neoarrivati e che avevano trasferito qui la propria vita già anni fa.
La prima realtà a credere in noi è stata Unhcr Italia, l’agenzia delle Nazioni Unite che mira alla tutela di richiedenti asilo e rifugiati e che ha deciso di investire sul protagonismo dei rifugiati attraverso formazione e sostegno. Sono loro che hanno premiato la nostra iniziativa “Luoghi Comuni” che ha permesso a una cinquantina di giovani, tra questi anche rifugiati e seconde generazioni, di visitare musei, monumenti e luoghi simbolo di Torino.
Il ritorno in Somalia e la necessità di scrivere
In un anno difficile come questo, segnato da chiusure dei confini e spostamenti ridotti, sono potuto rientrare in Somalia dopo 13 anni, con in tasca un passaporto europeo e nella borsa un progetto: coinvolgere le scuole italiane e somale in uno di scambio di conoscenza reciproca. Il progetto, premiato da Oim Italia nel quadro dell’iniziativa A.MI.CO. Award 2019, nasce dal desiderio di valorizzare gli ideali del Manifesto di Ventotene e di trasmettere un messaggio di pace ai giovani nati e cresciuti durante la guerra civile somala. Il Manifesto è anche il centro della rassegna che ho ideato e che promuoviamo dal 2017: Il Festival dell’Europa solidale e del Mediterraneo. Grazie a questa manifestazione, di recente, ho ricevuto da parte della Commissione Europea il “Premio Altiero Spinelli”.
La mia storia di fuga, accoglienza e lavoro mi ha insegnato tanto, per questo ho avuto voglia di raccontarla in un libro, Lo sguardo avanti (add editore) in cui affermo che è giunto il momento di riflettere su nuove forme di accoglienza e di cooperazione. Chi arriva in Europa fuggendo da una vita insopportabile, deve essere soggetto della propria vita e non relegato all’angolo del tavolo, se non fuori dalla stanza, quando si parla di regole e metodi con cui organizzare la cooperazione con i suoi luoghi d’origine. Per farlo, serve cambiare prospettiva. Lo deve fare chi arriva e anche chi “accoglie”, perché considerare l’altro come un proprio pari è il più importante passo per costruire un mondo migliore. E se il mondo non è migliore per tutti, non lo sarà mai per nessuno.
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