- Le Hijabeuses rivendicavano il diritto alla parità di trattamento come riconoscimento della specificità identitaria. L’articolo 1 dello statuto della federazione invece nega la possibilità di indossare in gara simboli di matrice religiosa.
- Contro la libertà di indossare in gara il copricapo si era espresso nei giorni scorsi anche Frederic Darmanin, ministro degli interni.
- Nella sua radicalità, il modello francese di laicità si pone un termine di paragone a contrariis che certamente va preso in considerazione, anche stigmatizzandone gli eccessi.
Un no definitivo. Il consiglio di stato ha bocciato il ricorso presentato contro la Fédération Française de Football (FFF) da venti calciatrici di religione musulmana. Chiedevano di indossare in partita lo hjiab, il tradizionale copricapo cui viene conferito un significato religioso e identitario. Tale possibilità viene negata dalla FFF, che così facendo agisce in applicazione di un principio di difesa della laicità che in Francia trova realizzazione inflessibile. Anche sui campi da calcio, visti come contesti entro i quali è necessario mantenere neutralità.
Il tema è controverso, estremamente scivoloso, già fatto oggetto di un sofferto dibattito in sede Fifa, che peraltro ha portato la confederazione calcistica mondiale a prendere una posizione più aperturista. Invece la Francia, su questo terreno, non molla. Quanto la questione sia presa sul serio è dimostrato dal fatto che una pubblica espressione di appoggio alla posizione della FFF sia giunta dal ministro degli Interni, Gerard Darmanin. Alla vigilia della decisione del consiglio di stato ha rilasciato un’intervista all’emittente radiofonica RTL e si è dichiarato «molto contrario» al riconoscimento di un diritto a indossare, durante una competizione sportiva, lo hijab o qualsiasi altro simbolo di appartenenza religiosa. E per rafforzare il concetto, Darmanin ha dato pieno appoggio all’articolo 1 dello statuto della FFF, sul cui annullamento hanno provato a far leva le ricorrenti.
Nessun segno di appartenenza è consentito
Contro quell’articolo hanno fatto ricorso le “Hijabeuses”, che hanno trovato forte appoggio da parte dell’associazione Alliance Citoyenne. Il testo, molto lungo e articolato, afferma che nelle manifestazioni sportive organizzate sotto l’egida della FFF sono interdetti «tutti i segni o oggetti di abbigliamento che manifestino con evidenza un’appartenenza politica, filosofica, religiosa o sindacale». Esso detta dunque un’interpretazione molto restrittiva del rapporto che il calcio e lo sport devono intrattenere con la società e le fratture politico-identitarie che essa propone. In altri paesi europei l’atteggiamemento sul tema è meno inflessibile, ma in Francia il tema della laicità continua a essere fra i più sensibili nel dibattito pubblico. suo impatto su un ambito del sistema socio-culturale nazionale dall’altissima valenza simbolica, quale il calcio è, non poteva non accendere contrapposizioni aspre.
In questo senso la mobilitazione delle Hijabeuses si è subito allienata al registro del diritto alla parità e alla libertà di esprimere il profilo identitario di gruppo. Il facile hashtagh #FootballPourToutes ha marcato un segno ben preciso della rivendicazione, che spinge verso il diritto alla non discriminazione. Ma in tutto ciò, l’aspetto più rilevante del percorso di giurisprudenza amministrativa che ha trovato conclusione il 29 giugno sta nel fatto che il parere del rapporteur publique, il magistrato incaricato di formulare un parere sulla richiesta prima che il Consiglio di Stato la esaminasse, era andato in una direzione favorevole alle ricorrenti.
Smentito il rapporteur public
Il parere consegnato il 26 giugno dal rapporteur Clément Malverti ha provato a maneggiare un tema estremamente complesso.
Innanzitutto il magistrato ha tentato di tracciare un distinguo sull’oggetto, ampiamente divisivo, del dibattito che durante gli Anni Zero ha spaccato l’opinione pubblica francese riguardo all’esposizione dei simboli religiosi negli uffici pubblici. Rispetto a quel precedente, a giudizio di Malverti, bisogna guardare in modo diverso sia in ragione della specificità del campo in cui si va a intervenire, sia perché in questo campo la simbologia di alcuni club (per esempio l’Auxerre, che mette una croce al centro del simbolo) rischierebbe di aprire una catena di contenziosi dagli effetti incontrollabili. In considerazione di ciò, Malverti è giunto alla conclusione che la possibilità di indossare in gara il copricapo non lede l’ordine sociale né può essere considerato un attacco alla laicità dello stato francese. Il rapporteur, peraltro, ha aggiunto considerazioni che smontano parte degli argomenti a supporto dell’uso dello hijab in gara. Fra questi, l’appello ai regolamenti della Fifa. Che certo, consentono a livello di calcio internazionale l’utilizzo dello hijab in gara; ma che, pur da considerarsi come fonti sovraordinate rispetto al regolamento di una federazione nazionale (la FFF), non possono certo imporsi sulla legge di uno stato sovrano.
Contro questa posizione si sono schierati altri soggetti, come la Ligue International des Droits de Femmes, che curiosamente è stata rappresentata in giudizio dall’avvocato cassazionista Frédéric Thiriez, presidente della Ligue de Football Professionnel francese dal 2002 al 2016 e candidato alla presidenza della FFF sconfitto nel 2021. Secondo il suo giudizio, l’utilizzo del copricapo islamico in gara sarebbe «l’acquisizione di rivendicazioni comunitarie e un attacco alle regole del vivere comune». Argomentazione adottata pressoché integralmente da Loïc Poupot, avvocato della FFF, che ha ribadito l’allineamento fra le regole della federcalcio francese e la salvaguardia di un’idea di ordine pubblico.
Ma al di là delle prese di posizione che rispettano le istanze dei soggetti interessati, rimane il dato di fatto che il pronunciamento del rapporteur public va nel senso di aprire all’uso dello hijab in gara. Secondo quella che viene indicata come prassi consolidata, il giudizio del rapporteur è una sorta di ipoteca sul pronunciamento del Consiglio di Stato, nel senso che nell’ampia maggioranza dei casi la massima istanza amministrativa del sistema giurisdizionale francese si pronuncia in concordia. E invece stavolta il Consiglio di Stato è andato in direzione opposta.
I poteri della federazione sportiva
Le dieci pagine della sentenza emessa dal supremo organo amministrativo francese fissano dei principi validi per il caso francese, ma che certo possono costituire un riferimento per la giurisprudenza di altri Paesi.
Vengono infatti stabiliti concetti relativamente alla natura da ente pubblico di una federazione calcistica nazionale e al suo potere di regolamentare il comportamento dei soggetti che ricadono sotto la sua giurisdizione in quanto tesserati. In questo senso, il paragrafo 14 del documento emesso dal Consiglio di Stato esprime una posizione netta: «(...) l’interdizione di portare un "segno o capo di abbigliamento che manifesta con evidenza un’appartenenza politica, filosofica, religiosa o sindacale”, limitata al tempo e al luogo delle partite di calcio, sembra necessaria per assicurare il loro buon svolgimento e per prevenire ogni conflitto o confronto che non abbiano nesso con lo sport». Giudizio netto, che oltre a segnare un dato forte dal punto di vista procedurale (la netta divaricazione fra il parere del rapporteur public e il Consiglio di Stato), porta con sé qualche elemento sociologicamente interessante da considerare. A partire da quell’idea del rapporto fra manifestazioni sportive e ordine pubblico secondo la quale il risultato ottimale (una manifestazione sportiva del tutto impermeabilizzata rispetto alle tensioni di ordine pubblico) si otterrebbe con una totale separazione fra la sfera dello sport e tutte le altre sfere della società.
Si tratta di una posizione netta, rispetto alla quale è lecito alimentare qualche distinguo pur non essendo difensori dei simboli di identificazione religiosa. Ma ciò che più spicca è l’elemento di eccezionalismo che ancora una volta entra in gioco quando c’è da osservare un caso francese. Nello specifico, la difesa del concetto di laicità ha qualcosa di radicale, con la quale sarebbe il caso di confrontarsi. Tanto più per quelle realtà nazionali che fanno i conti con ondate reazionarie in materia di diritti. Ondate che trovano una sponda in presunte teorie dei diritti naturali profondamente imbevute di confessionalismo dottrinario. Va da sé che ogni riferimento a casi noti sia puramente casuale. Nella sua radicalità, il modello francese di laicità si pone un termine di paragone a contrariis che certamente va preso in considerazione, anche stigmatizzandone gli eccessi. Sottinteso che, come al solito, non stiamo parlando soltanto di calcio.
© Riproduzione riservata