Fatalismo, oggi, è una parola inaccettabile, ma un tempo indicava la consapevolezza che gli imprevisti sono parte della vita. Un concetto da riscoprire in un mondo che non sa più accettare l’imponderabile
Chissà quanti, tra politici e commentatori, si sono svegliati questa mattina scoprendo un’Europa diversa da quella su cui avevano scommesso. Ma soprattutto quanti di loro riconosceranno che le elezioni appartengono a quei fenomeni sociali con una natura sostanzialmente imponderabile, nonostante sondaggi e statistiche sempre più sofisticati. Pochi, probabilmente: viviamo in un mondo che non ama l’imprevedibilità.
Intendiamoci, non c’è nulla di male nelle società che si sforzano di preconizzare il futuro. In fondo, è un intento che perseguiamo fin dal tempo in cui le poleis greche interrogavano l’oracolo di Delfi. Ma il peccato dell’uomo contemporaneo è di non concedere più ai profeti nemmeno il dubbio dell’interpretazione.
Questa condotta si riflette nell’operato di una politica che promette di azzerare ogni incertezza, trattando le tempeste della storia come se fossero quelle del bollettino meteorologico: ne annuncia l’arrivo, ne calcola il percorso e durata e, se proprio queste non vogliono finire quando previsto, si affretta a rassicurarci che il brutto tempo passerà presto.
E come se ci affidassimo a un grande algoritmo, in cui è sufficiente inserire i dati corretti per ottenere la soluzione definitiva ad ogni problema. La guerra non fa eccezione: sconfiggiamo Putin e ristabiliamo il primato del diritto internazionale, convinciamo Israele e Hamas a firmare il cessate il fuoco e avremo la pace in Medio Oriente.
Ma il meccanismo è il medesimo per ogni altra dimensione della società. Il cambiamento climatico è senza dubbio connesso a migliaia di variabili fisiche e umane, ma ci persuadiamo che contenere l'aumento della temperatura entro valori perfettamente calcolati sarà sufficiente al fine di scongiurarne gli effetti negativi.
Allo stesso modo, siamo certi che basterà rivedere gli accordi di Dublino per governare il processo migratorio più imponente della storia moderna o stilare codici di condotta sulle intelligenze artificiali per evitare che queste ci soffochino.
Il controllo che non c’è
Cercare chiarezza e sintesi in un mondo così complesso e articolato è tanto comprensibile quanto doveroso. Ma è la rapidità con cui avvengono oggi i cambiamenti a rendere insensata l’aspettativa di averne il pieno controllo. Nel tempo in cui la politica prende coscienza di una nuova crisi e si appresta a mobilitarsi per risolverla, il pianeta ha già cambiato volto. Eppure, anche di fronte a questa evidenza, siamo convinti di poter eliminare del tutto incertezza e ambiguità dal nostro quotidiano.
Contiamo sul fatto che le conquiste tecniche, storiche e giuridiche di cui siamo stati capaci non ci faranno morire di fame o in una trincea, non saremo giudicati colpevoli senza un giusto processo e i nostri risparmi non evaporeranno in un click. Tutto giusto, finché non scopriamo che questo modello non è immutabile e senza margini di errore.
Dimenticarcelo diventa destabilizzante quando ci accorgiamo che le fondamenta della società odierna non sono immuni dal dubbio: oggi la fine di una guerra non significa per forza la pace, il primato degli inviolabili diritti personali e internazionali dipende dall’umore di governi e alleanze e nemmeno la banca più solida può garantire del tutto il nostro capitale.
Le risorse necessarie
Per adattarsi a questa ritrovata condizione di insicurezza, l’occidente ha bisogno di risorse psicologiche e culturali ancor prima che di migliorare la sua visione strategica.
Mentre ci sforziamo di prevedere gli esiti delle urne, delle guerre, o dei mercati finanziari, dovremmo ricordarci che è esistito un tempo in cui la scomodità, propria di ogni situazione incerta, non implicava una paralisi collettiva né, tantomeno, inficiava i progetti di una comunità.
Un tempo in cui la parola “fatalismo”, oggi così denigrata, non era sinonimo di mera accettazione del destino, ma considerava ambiguità e imprevisti come variabili ineliminabili del percorso.
Reintrodurre questa prospettiva nella politica e nella società contemporanee significherebbe per lo meno iniziare a lasciarsi alle spalle il mondo delle favole che ci ha così comodamente ospitati per oltre 30 anni, smettendo di stupirci se l’ultima riga del racconto della nostra storia non termina più con un rassicurante “vissero tutti felici e contenti”. Perché la prima cosa da accettare oggi è che l’ultima riga non arriverà mai…
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