- Siamo in guerra? Di settimana in settimana più numerosi, i portavoce dell’Italia contraria all’invio di armi all’Ucraina chiedono a gran voce che si faccia chiarezza e si ammetta una volta per tutte che siamo entrati in un conflitto armato con la Russia.
- Chi in questo momento non vuole il negoziato è Vladimir Putin, come ha detto egli stesso a Mario Draghi. Il presidente russo ritiene di non avere ancora sufficiente bottino per giustificare davanti alla sua opinione pubblica l’ecatombe di soldati e i danni prodotti dalle sanzioni.
- Al momento quel che è urgente è bloccare l’offensiva russa nell’est. Nel frattempo gli europei che contano potrebbero dare risposte ai segnali di disponibilità che manda Pechino, e che Washington colpevolmente lascia cadere.
Siamo in guerra? Di settimana in settimana più numerosi, i portavoce dell’Italia contraria all’invio di armi all’Ucraina chiedono a gran voce che si faccia chiarezza e si ammetta una volta per tutte che siamo entrati in un conflitto armato con la Russia.
Si aggiunge: invece che far la guerra occorre negoziare!, frase di solito declamata in tv con un certo tono sdegnato idoneo a segnalare pensiero complesso e senso morale. Sicché adesso l’opinione pubblica pare ripartita tra gli epigoni di quella destra anglo-americana che sogna nuove cortine di ferro e vorrebbe combattere in Ucraina una guerra per procura contro Mosca e contro la Cina, e il vasto schieramento trasversale che reclama una pace anch’essa per procura, negoziata sopra le teste degli aggrediti e nella inespressa convinzione che quelli poi si adeguerebbero alle nostre volontà. Proviamo allora a esercitare un pensiero asimmetrico senza curarci del chiacchiericcio che sale dai talk show.
Chi non vuole negoziare
Chi in questo momento non vuole il negoziato è Vladimir Putin, come ha detto egli stesso a Mario Draghi. Il presidente russo ritiene di non avere ancora sufficiente bottino per giustificare davanti alla sua opinione pubblica l’ecatombe di soldati e i danni prodotti dalle sanzioni.
Si accontenterebbe delle due oblast del Donbass? Forse. O forse no, una volta travolto il nemico nell’est potrebbe attaccare Odessa, o di nuovo Kiev, per poi trattare con Volodymyr Zelensky da posizioni di forza assoluta.
Dunque il modo in apparenza più semplice per portare subito Putin al tavolo negoziale sarebbe metterlo in condizione di sbaragliare il nemico: e questa è la soluzione implicitamente suggerita da quanti propongono di non armare più l’esercito ucraino. Se costoro fossero coerenti dovrebbero aggiungere: semmai armiamo i russi (in nome della pace, s’intende).
Eppure si illude chi crede che la vittoria di Putin nelle battaglie campali dell’est chiuderebbe il conflitto: gli ucraini continuerebbero a combattere se non la guerra certo la guerriglia (secondo i servizi segreti di Kiev le prime formazioni di civili in armi sono già apparse in una vasta zona a est di Kherson controllata dai russi). Combatterebbero dal territorio libero e nelle città occupate, con le armi della Nato o con quelle offerte dalla diaspora. Se scegliesse di resistere anche uno solo su mille, gli occupanti dovrebbero vedersela con 44mila “partigiani”. Lo scontro sarebbe infinito e atroce.
Il fallimento dell’offensiva
Ne consegue che al momento la premessa necessaria a un cessate il fuoco è il fallimento dell’offensiva russa nell’est. A quel punto Putin sarebbe costretto a rinunciare ad altre conquiste territoriali e dovrebbe accontentarsi di quel che ha già arraffato (e non è poco: il mare di Azov, gran parte della costa ucraina, il porto e il kombinat di Mariupol). In cambio di una parte di quei territori potrebbe negoziare la formula di un’Ucraina neutrale ma non vassalla e accettare di rimandare al futuro la decisione sullo status dei territori occupati.
Dunque fossimo pure in guerra, lo siamo perché vogliamo arrivare rapidamente a una fine del conflitto. Anche l’invio di armi pesanti all’Ucraina fin qui è pienamente giustificato e non uccide affatto le speranze di pace, E neppure implica necessariamente un inferocire del conflitto, al contrario di quanto racconta la vulgata pacifista.
Per esempio, disponendo di una contraerea efficace gli ucraini ora sono in grado di scoraggiare i bombardamenti d’alta quota, imprecisi e letali per la popolazione, cui l’aviazione russa ricorre per sottrarsi ai piccoli razzi Stinger, micidiali per i caccia in volo radente. In sostanza la Nato continua a giocare di rimessa, dentro canoni che fin qui ricalcano, oibò, la “guerra giusta” woytiliana, cioè un’operazione militare puramente difensiva volta a proteggere la popolazione da un ingiusto aggressore.
Ma lo justum bellum ha, tra le sue condizioni, anche il non provocare mali maggiori di quelli prodotti dalla guerra in corso. Fin qui gli ucraini sembrano riusciti a imbrigliare l’offensiva russa nell’est: ma cosa accadrebbe se lanciassero una controffensiva con le nuove armi e riuscissero a travolgere il nemico? Qui nascono dubbi legittimi, anche se solo in parte.
La vittoria di Kiev
Si tratta di capire cosa debba intendersi per “vittoria dell’Ucraina”, soluzione sempre più spesso auspicata da politici e think tank americani, non solo di destra. In un certo senso gli ucraini hanno già vinto, avendo impedito a Putin di cogliere i due obiettivi dichiarati all’inizio della guerra, “demilitarizzare” e “denazificare”, ovvero decapitare il governo di Kiev e smantellare le sue forze armate. La vittoria sarebbe anche più larga se riuscissero a liberare parte dei territori conquistati dal nemico in questi due mesi. Ma se tentassero di riprendersi quanto Mosca ha occupato otto anni fa, e cioè Crimea e parte del Donbass, Putin sarebbe tentato di reagire con una “punizione esemplare”, quale un contrattacco con armi “non convenzionali”, incluso il nucleare tattico.
Come il presidente russo non è un pazzo, così non è pazzo Zelensky: e infatti mai finora ha promesso ai suoi connazionali la liberazione della Crimea, o altre azioni che violassero le regole non scritte che Mosca considera invalicabili. Semmai è più probabile che la guerra si blocchi su una posizione di stallo e lentamente perda intensità, senza mai cessare del tutto. Esito disastroso per la Russia, che resterebbe sotto sanzioni. Ma pericoloso anche per la Cina e per l’Europa.
Pechino rimarrebbe schiacciata sotto la sua “partnership strategica” con una Russia che non ama ma di cui non può completamente liberarsi. L’Europa resterebbe impigliata in un conflitto che arde sotto le sue porte; la priva di un partner, Mosca, necessario alla stabilità delle sue frontiere; e di fatto la sottomette alla volontà americana di ricacciare indietro la Cina.
Gli Stati Uniti
Ma anche a Washington non conviene che la Russia scompaia dalla comunità internazionale, evento che paralizzerebbe tutti i più importanti negoziati internazionali, dal disarmo nucleare al clima.
Di questo pare consapevole anche una parte dell’amministrazione Biden, perlomeno divisa. E anche per questo non andrebbero prese alla lettera le esternazioni del presidente e del suo ministro della Difesa («nostro obiettivo è indebolire la Russia»), peraltro subito sminuite informalmente da altri segmenti del governo Usa.
Come insegnano tante guerre, quel che i belligeranti dicono, e quel che concretamente fanno, spesso non coincide. Mentre annunciavano reazioni decise e muscolari, americani e Nato hanno atteso due mesi prima di inviare agli ucraini carri armati e contraerea poderosa; e se in quel lasso l’esercito russo fosse riuscito a prendersi subito i due oblast del Donbass e non avesse proseguito, quelle armi probabilmente mai sarebbero partite.
Suonerà paradossale, ma oggi proprio i nuovi carri armati permettono agli occidentali di scoraggiare negli ucraini eccessive ambizioni di rivincita. Basterebbe sospendere gli afflussi delle munizioni, e a Kiev eventuali “falchi” dovrebbero desistere.
Ma questo riguarda il futuro. Al momento quel che è urgente è bloccare l’offensiva russa nell’est. Nel frattempo gli europei che contano potrebbero dare risposte ai segnali di disponibilità che manda Pechino, e che Washington colpevolmente lascia cadere.
Sarebbe tanto più necessario perché a ridosso del Donbass non si sta decidendo solo l’avvenire dell’Ucraina, ma in certo modo anche il futuro del mondo. Su tutto questo per una volta la posizione italiana – quale espressa dal presidente della Repubblica, e capo delle Forze armate – appare limpida e lungimirante.
Multilateralismo, una nuova Helsinki e non una nuova Yalta: il discorso europeista e liberale di Sergio Mattarella è totalmente diverso dalla sloganistica adottata dal governo britannico, apripista di quella destra americana che persegue la restaurazione dell’egemonia statunitense. Se ha un limite è che suona troppo complesso in un dibattito pubblico per buona parte intonato ora alle semplificazioni rudimentali di chi si dice custode della complessità, ora a un occidentalismo così rozzo che pare inventato dalla propaganda putinista.
Per cui, non illudiamoci, continueremo a parlare della tragedia ucraina nel solito modo spensierato e svolazzante, com’è tradizione di un paese che non riesce a misurarsi con la storia.
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