- Scontata l’astensione dei 4 paesi del Gruppo di Visegrád (ne è parte anche l’Ungheria), non altrettanto che si chiamassero fuori anche Croazia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Un messaggio netto e impossibile da ignorare.
- La linea di frattura fra est e ovest dei ranghi Ue era implicita già al momento dell’ambizioso (troppo?) allargamento del 1° maggio 2004. E il sistema degli accordi transitori, creando profili della cittadinanza comunitaria di sere A e B, non ha aiutato.
- In qeusto quadro i diritti civili, che sono patrimonio fondamentale del patto comunitario euro-occidentale, rischiano di essere spacciati dalle élite politiche dell’est alle opinioni pubbliche interne come l’ennesimo strumento di controllo e pedagogizzazione.
Una frattura rimasta latente per lungo tempo. E che infine si è svelata in tutta la sua gravità. Taglia l'Europa dei 27 lungo la vaga linea di sutura fra est e ovest e si manifesta su un tema che per i paesi occidentali appartiene alla sfera degli oggetti non negoziabili: i diritti della persona. Prima o poi la contraddizione doveva esplodere e l'occasione è venuta dalla legge anti-Lgbtqi votata dal parlamento ungherese dominato da Fidesz, il partito di ultradestra del premier Viktor Orbán.
Un testo profondamente discriminatorio, che ghettizza ulteriormente i soggetti e le comunità di diverso orientamento e identità di genere e per questo ha animato fortissimo dissenso presso gran parte dei capi di stato e di governo dell'Unione Europea. Non tutti, però. E proprio qui sta il nodo. Al cospetto di una questione legata a valori e principi ritenuti non negoziabili dai governi euro-occidentali e da vasta parte delle loro opinioni pubbliche, l'Unione si scopre spaccata in due. Ma è più corretto dire che lo è sempre stata, sin dai giorni dell'ambizioso (troppo?) allargamento del 1° maggio 2004, che in un colpo vide entrare nei ranghi dell'unione 10 paesi di cui 8 dell'est Europa e incrementò di due terzi (da 15 a 25) il numero di stati membri.
Soltanto adesso arriva il momento di fare i conti con quella contraddizione originaria. Con la certezza che da qui in poi non si potrà più fare finta di nulla. Ma anche col timore che, viste le (non) reazioni finora registrate rispetto alle astensioni si continui a alimentare l'effetto-elefante nella stanza. Fino a qualche giorno fa era lì ma si faceva finta di non vederlo. E adesso che muovendosi comincia a sfasciare il mobilio, si insiste a indugiare nel dirsi una volta per tutte che il problema esiste.
La legge che ghettizza – Il testo approvato dal parlamento ungherese trasforma in legge dello stato quel magma di pregiudizio aggressivo e intolleranza che viene alimentato nei confronti dei soggetti portatori di un orientamento sessuale diverso dal 'normale' status di eterosessualità. In particolare, essa affina un meccanismo del disprezzo per cui ogni argomento, o oggetto, o contenuto riconducibile alla tematica Lgbtqi deve essere di divulgazione proibita presso i minori di 18 anni. Il che ha come effetto immediato escluderne la trattazione nelle aule scolastiche e imprimervi una bollinatura da tematica scabrosa, cui possano accedere con piena consapevolezza soltanto soggetti adulti e sufficientemente socializzati.
Di fatto è una pornificazione di ogni identità e orientamento di genere che escano dal binario dell'eterosessualità, una forma particolarmente odiosa di stigmatizzazione. Cui si aggiunge l’infamia al quadrato di una pretesa “lotta alla pedofilia”, associata dal premier Orbán agli obiettivi che questa legge si sarebbe intestata e come se la piaga della pedofilia andasse attribuita di default ai diversi orientamenti di genere. Scontato che fuori dall'Ungheria si mobilitasse un'opinione pubblica internazionale in difesa dei diritti di soggetti e gruppi a questo modo marchiati e ghettizzati. E persino dovuta la ferma presa di posizione delle istituzioni dell'Unione, per le quali una legge del genere si colloca fuori dalla cultura giuridica e delle libertà civili che fa da fondamento pre-politico a qualsivoglia trattato. Ma poi, quando si è trattato di fare la conta degli stati e dei governi nazionali Ue che si sono schierati contro la legge voluta da Orbán, ecco snudata la frattura latente.
Quelli che non – La lettera dei capi di stato e di governo, redatta avendo come riferimento anche la Giornata mondiale dell'orgoglio Lgbtiq del prossimo 28 giugno, raccoglie le firme di esponenti in rappresentanza di 16 paesi dell'Unione. Fuori tempo massimo si aggrega il diciassettesimo, l'Austria, che per questo motivo non figura nel documento inoltrato al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e al presidente di turno del Consiglio dell'Unione Europea, il portoghese António Costa. I paesi firmatari sono quasi esclusivamente membri euro-occidentali dell'Ue già organici prima dell'allargamento del 2004, più le due isole del Mediterraneo ammesse nei ranghi nel 2004, più due repubbliche baltiche su tre (Estonia e Lettonia, non la Lituania).
Ma compiuta la veloce rassegna di chi in quella lista c'è, la notizia più interessante (ma anche inquietante) sta nel constatare chi non c'è: tutti gli stati membri dell'est Europa. Era da dare per scontato che oltre all'Ungheria non figurassero gli altri tre del Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Ma mancano anche i due paesi sorti dalla disgregazione dell'ex Jugoslavia (Slovenia e Croazia, quest'ultima è la più recentemente ammessa nei ranghi dell'Unione, anno 2013). E mancano pure i due paesi ammessi con l'allargamento del 2007, Bulgaria e Romania. Dunque l'intero blocco dei paesi dell'est ammessi a partire dall'allargamento del 1° maggio 2004 si chiama fuori da questa battaglia che riguarda non soltanto i diritti dei soggetti portatori di diversi orientamenti d'identità e genere, ma in generale la sfera dei diritti della persona. Si è dunque al cospetto dei principi non negoziabili sui quali dovrebbe basarsi la cultura politica dell'Unione. E invece questo passaggio di cronaca, pronto già a convertirsi in passaggio storico, testimonia che quella cultura politica covava una divisione molto difficile da mediare.
Fusione ghiaccia – Dunque bisogna tornare a quell'allargamento del 1° maggio 2004. La grande ambizione di inglobare nel progetto europeista un gruppo di paesi europei esterni alla matrice occidentale che caratterizza le istituzioni comunitarie sin dalla loro origine. Progetto rischioso proprio perché ambizioso, col timore di andare incontro a una fusione a freddo. Diciassette anni dopo si può dire che sia stata una fusione ghiaccia. E lasciando fra parentesi il caso delle due isole del Mediterraneo, Malta e Cipro, che sono diventate paradisi dell'offshoring e fabbriche di golden visa per oligarchi dell'economia grigia globale in cerca di un passaporto comunitario, bisogna soffermarsi sul caso degli 8 paesi ammessi in quella circostanza (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria), cui faranno seguito Bulgaria, Croazia e Romania.
Era nelle cose che il loro diverso e ritardato percorso di democratizzazione, di apertura alle economie di mercato e di crescita e autonomizzazione delle società civili interne potesse presentare un set di contraddizioni molto complesso da gestire. Si contava tuttavia sull'auspicio che il mitico acquis communitaire, oltre che un corpus di diritti e obblighi cui ciascuno stato membro deve adeguarsi, funzionasse anche da ecumene culturale e contribuisse a integrare pienamente i nuovi membri dell'Unione. A 17 anni di distanza si può serenamente dire che quell'auspicio fosse deformato dall'ottimismo, forse persino viziato da un etnocentrismo euro-occidentale che sarebbe stato il caso di temperare. Va inoltre aggiunto che, su questo versante, gli stessi paesi dell'Ue a 15 non sono del tutto innocenti.
Quando vigevano i regimi transitori – Per gli studiosi del fenomeno della cittadinanza europea rimane un gigantesco vulnus nella cultura dei diritti quel 'regime transitorio' che metteva nelle mani dei 15 stati membri dell'Ue pre-2004 la possibilità di rallentare la libera circolazione dei nuovi comunitari durante un periodo oscillante fra i 2 e i 7 anni, con misure da demandarsi a accordi bilaterali fra governi nazionali. Un meccanismo nato dal timore che giungesse dall'est un'ondata di manodopera a basso costo (ricordate il mito dell'idraulico polacco che per mesi tenne banco nel dibattito pubblico francese?), insostenibile in termini di concorrenza per i lavoratori comunitari pre-2004.
Di fatto, nell'Europa comunitaria che ama percepirsi come lo spazio privilegiato per i diritti della persona, si legittimava l'idea che per un lasso di tempo settennale potessero esistere cittadini comunitari con un profilo pienamente realizzato e cittadini comunitari con profilo abbozzato e in fieri. A questi ultimi veniva sterilizzato un diritto elementare come quello della libera circolazione nel territorio di cui si è (si dovrebbe essere) pienamente cittadini. Se davvero si voleva che i nuovi cittadini comunitari non avvertissero uno stato da new comers cui toccasse fare i conti con un divario, quell'inizio fu quanto di peggio si potesse architettare. Veniva certificata una differenza di status della membership che rafforzava il senso delle diversità culturali e eredità storiche.
Non certo la premessa giusta per mettere in comune l'indispensabile patrimonio culturale che deve fare da sfondo a un progetto di unità politica. Purtroppo il tema dei diritti della persona è rimasto schiacciato dentro questo meccanismo sciaguratamente gestito. Ciò che rende il tema stesso, dal punto di vista di quei paesi, non già una questione d'interesse e sensibilità universali. Piuttosto, esso è soltanto un altro strumento nelle mani delle élite politiche nazionali per propagandare alle opinioni pubbliche interne l’esistenza di una pretesa superiorità morale euro-occidentale e delle sue tentazioni pedagogiche.
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