Dal prossimo 1° luglio l’Ungheria di Viktor Orbán, ovvero l’unico governo “filocinese” nell’Europa a 27, assumerà la presidenza semestrale dell’Unione europea. Per questo motivo nel primo viaggio post Covid di Xi Jinping nel vecchio continente non poteva mancare una lunga (8-10 maggio) tappa sul Danubio, nella democratura con la quale i rapporti economici e politici di Pechino sono in piena fioritura.

Le sollecitazioni affinché il governo Orbán difenda gli interessi della Cina nell’Ue si sono intensificate negli ultimi mesi. Ricevendo il 24 aprile scorso il suo omologo, Peter Szijjártó, il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha spiegato che Pechino si aspetta che Budapest incoraggi l’Ue ad adottare una «visione razionale e amichevole dello sviluppo della Cina e a perseguire una politica cinese più attiva e pragmatica». Che assesti insomma una spallata al “de-risking”, alla riduzione della dipendenza dalla Cina promossa dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen, rispetto alla quale gli stati membri già procedono in ordine sparso.

L’amicizia politica tra Orbán e Xi è apparsa più che mai evidente nell’ottobre scorso, quando il premier è stato l’unico capo di governo dell’Ue a partecipare a Pechino al III forum internazionale sulla Belt and Road Initiative (Bri), la strategia di politica estera lanciata dal presidente cinese nel 2013. Primo paese europeo ad aderire alla cosiddetta nuova Via della Seta, l’Ungheria è diventata la porta spalancata alla Cina dell’Unione europea. Questo perché l’ingresso nella Bri ha coinciso con la “Apertura a oriente” lanciata nel 2010 dal premier magiaro. Questa politica di promozione delle relazioni economiche con l’Asia ha portato la Cina a diventare il principale investitore estero in Ungheria, con 10,7 miliardi di dollari, ben oltre la metà del totale degli investimenti esteri diretti ricevuti nel 2023.

Un’altra fabbrica di Ev

Un sostegno, quello cinese, che vale doppio, per l’Ungheria che deve fare i conti con l’inflazione alle stelle e l’esaurimento dei fondi europei in risposta alle continue violazioni dello stato di diritto da parte dell’esecutivo dominato da Fidesz.

L’isolamento nell’Ue ha finito per spingere Budapest sempre più tra le braccia di Pechino. Il commercio bilaterale l’anno scorso ha raggiunto 14,5 miliardi di dollari, +73 per cento rispetto al 2013. Tra l’Ungheria (10 milioni di abitanti) e la Cina ci sono 17 collegamenti aerei settimanali.

Xi – che sbarcherà oggi a Budapest con una delegazione di centinaia di funzionari di partito e imprenditori al seguito – sarà accolto con lo stesso eccezionale protocollo di sicurezza riservato un anno fa a papa Francesco. Orbán dovrebbe incontrarlo domani, 9 maggio, “Giornata dell’Europa”.

Così il leader ultraconservatore celebrerà il ventesimo anniversario dell’ingresso dell’Ungheria nell’Ue assieme a Xi, facendo da contraltare a von der Leyen con quella che Orbán si vende come la sua “success story” di integrazione tra un paese europeo e la seconda economia del pianeta.

Secondo quanto anticipato dai media magiari, giovedì Xi e Orbán visiteranno la città di Pécs, nel sud dell'Ungheria, per annunciare la prossima apertura di uno stabilimento di veicoli elettrici di Great Wall Motors, che diventerebbe il terzo produttore cinese (dopo Byd, sempre in Ungheria, e Chery, in Spagna) a localizzare la produzione all’interno dell’Ue. Anche in questo caso il “regalo” a Pechino è enorme, perché grazie alla produzione massiccia in un paese dell’Ue i produttori cinesi potranno sottrarsi all’aumento dei dazi sulle importazioni che potrebbe essere decretato nei prossimi mesi dalla Commissione.

In realtà il ritorno per Orbán c’è: la disoccupazione nel 2023 era al 4 per cento, tanto che la crescita economica costringerà uno dei governi più xenofobi d’Europa ad accogliere altri lavoratori stranieri. Più in generale le statistiche parlano di una certa dipendenza dell’Ungheria dalla Cina, altro che “de-risking”.

Via della Seta

Prima delle macchine sono arrivate le batterie, delle quali dopo la Cina (79 per cento del mercato) e gli Stati Uniti (6 per cento) l’Ungheria è diventata il terzo produttore globale (4 per cento).

Una quarantina di fabbriche (operative, in costruzione o progettate), tra cui quella della numero uno al mondo, la cinese Catl, integrate nella filiera tedesca dell’automotive. L’Ungheria è l’unico paese dell’Ue al di fuori della Germania dove ci sono impianti produttivi di Bmw, Mercedes e Audi.

Le proteste per i danni all’ambiente arrecati da queste lavorazioni ultraenergivore – per il raffreddamento delle quali c’è bisogno di enormi quantità di acqua – sono state messe a tacere grazie al riconoscimento di “particolare interesse nazionale” attribuito ai relativi progetti. Agli amici cinesi Orbán ha steso il tappeto rosso: ad esempio per aggiudicarsi l’ultimo investimento (7,3 miliardi di euro), a Catl sono stati assicurati incentivi fiscali e infrastrutturali per 800 milioni di euro.

Per le multinazionali cinesi l’Ungheria è il paese ideale: politicamente “stabile”, bassi costi del lavoro e dell’energia, strettamente legato all’economia tedesca, in posizione strategica rispetto ai mercati dell’Europa centro-orientale.

Nell’ambito della nuova Via della Seta è atteso l’arrivo di fondi cinesi anche per il nuovo treno che dovrà collegare l’aeroporto di Budapest al centro della città, nonché per la linea ferroviaria pensata per unire le regioni orientali del paese a quelle orientali aggirando la capitale, un progetto che, prima dell’invasione dell’Ucraina, doveva essere sostenuto da capitali russi.

Dopo l’entrata in funzione nel 2022 della tratta Belgrado-Novi Sad, il 25 aprile scorso China Railway ha completato la posa dei binari nella tratta Novi Sad-Subotica (108 chilometri) della ferrovia Ungheria-Serbia che la compagnia di stato di Pechino sta costruendo nel quadro delle opere della Bri, per trasportare le sue esportazioni dal porto ateniese del Pireo in Europa centro-orientale.

Quando l’opera sarà ultimata, il tempo di viaggio tra Budapest e Belgrado e Budapest sarà ridotto da otto a circa tre ore.

Fondamentalismo sovranista

E dopo Huawei, che ha costruito negli ultimi anni in Ungheria il suo maggiore hub produttivo e logistico al di fuori della Cina, una società di telecomunicazioni di proprietà statale cinese – Fiberhome Telecom Tech – è pronta a creare nel paese la sua più grande base europea per la produzione di cavi ottici, con un investimento di 22 milioni di dollari.

Oltre al rapporto economico “win-win”, come lo definiscono a Pechino, c’è quello politico. Orbán ammira il sistema politico che, dal 1949, ha permesso il governo ininterrotto del partito comunista sulla Cina. Il primo ministro vede l’avanzata apparentemente inarrestabile della Cina autoritaria di Xi come una prova della validità della sua scommessa sul collasso del liberalismo.

Non c’è dunque di che meravigliarsi per il patto sulla sicurezza annunciato nelle scorse settimane dai due governi. Un’intesa – ufficialmente per contrastare il terrorismo e la criminalità internazionale – della quale non sono noti i dettagli e che potrebbe tradursi nel semplice pattugliamento da parte di poliziotti spediti da Pechino delle città ungheresi con le comunità cinesi più numerose. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani però temono che, una volta entrati in uno stato membro, gli agenti possano compiere missioni in altri paesi Ue a caccia di dissidenti.

Ad alimentare il furore antiliberale di Orbán è la stessa interpretazione fondamentalista della sovranità che muove i governi in Cina, in Russia e altrove.

Szijjártó l’ha spiegato così in un’intervista al Global Times in occasione della visita di Xi: quello che manca nella politica internazionale è il «rispetto reciproco».

Il ministro degli Esteri ungherese ha illustrato così la “motivazione chiave” delle ottime relazioni Budapest-Pechino: «Non abbiamo mai avuto alcuna intenzione di interferire nelle rispettive questioni interne. La Cina non ha mai collegato alcuna aspettativa politica alle sue scelte economiche».

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