- A partire dalle rivoluzioni industriali, il controllo delle tecnologie e della connettività (prima le rotte oceaniche, ora la supply chain globale), ha rappresentato l’elemento decisivo nella determinazione dell’ordine mondiale.
- Ma oggi è indispensabile una strategia capace di ricostruire un nuovo assetto che renda gli inevitabili conflitti assestamenti della struttura condivisa, non minacce a essa.
- Occorre ritornare allo spirito di Helsinki, lo ha ribadito il presidente Sergio Mattarella, e alla dottrina Kissinger. Questo significa garantire la sicurezza a tutti i paesi europei, e quindi ristabilire quel quadro di garanzie condivise che è mancato negli ultimi trent’anni.
Il leggendario giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, William Orville Douglas, scriveva: «Tutti dobbiamo essere consapevoli del cambiamento nell’aria – per quanto impercettibile – o si resterà vittime involontarie dell’oscurità».
Queste parole spiegano molto di quanto è successo nella comunità internazionale negli ultimi trent’anni, e ci spingono a cercare soluzioni sostenibili per i drammatici problemi generati dalla crisi dell’ordine mondiale e che nascono dalla complessità di un mondo iperconnesso: le guerre di ogni genere scoppiate a seguito del collasso dell’impero sovietico; le rivendicazioni per una governance multilaterale del mondo; l’accaparramento delle risorse del pianeta; la competizione per il primato tecnologico e per il controllo della supply chain globale.
È pressoché unanime l’esecrazione dell’orrenda invasione dell’Ucraina; emerge tuttavia la consapevolezza che il proseguimento del conflitto, indipendentemente dal suo esito, rischia di impedire la ricostruzione condivisa dell’ordine internazionale, la cui dissoluzione è all’origine della guerra.
La dottrina Kissinger
Henry Kissinger, il più raffinato stratega di tutto il secolo scorso, ha spiegato il concetto di ordine globale: un insieme di regole comunemente accettate, capace di definire i limiti dell’azione ammissibile, e un equilibrio di potere che imponga un controllo quando le regole vengono meno, impedendo che un’unità politica assoggetti le altre. Il consenso sulla legittimità degli assetti esistenti non preclude rivalità o conflitti, ma contribuisce a garantire che questi si configurino come assestamenti nell’ambito dell’ordine presente, piuttosto che come sfide radicali a tale ordine.
In ossequio a questa visione, nel luglio 1971 Kissinger si recò in visita in Cina, con l’obiettivo di legittimarne l’ingresso nell’Onu, avvenuto tre mesi più tardi, consapevole che il paese più popoloso del mondo non poteva rimanere ai margini della comunità internazionale. La visita dell’anno successivo di Richard Nixon sarebbe servita a rafforzare la rottura tra Cina e Urss, a tutto vantaggio dell’occidente.
La “dottrina Kissinger” sull’equilibrio tra le potenze basato sul consenso ha garantito la pace tra i contendenti della Guerra fredda. Il momento più alto fu raggiunto con gli Accordi di Helsinki del 1975 che hanno accolto le richieste dell’Urss sul riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali e il rispetto dell’integrità territoriale – riducendo così le tensioni tra i due fronti.
Nel 1991, a seguito della caduta dell’impero sovietico, gli Stati Uniti fecero proprie le tesi sulla “fine della storia” di Francis Fukuyama secondo cui ogni singolo stato era destinato a convergere verso la forma di stato “liberaldemocratico” a matrice statunitense. Samuel Huntington, nel suo Lo scontro delle civiltà, rispose sostenendo che in futuro si sarebbe potuto modificare l’ordine mondiale a causa degli scontri tra civiltà (ad esempio islamica, occidentale, cinese, ecc.) – civiltà che sarebbero diventate i veri attori dell’ordine globale, prima ancora che gli stati.
In quegli anni si parlò anche della possibilità di smantellare la Nato; in ogni caso, la Russia fu rassicurata sul fatto che non vi sarebbero stati allargamenti ad est. In realtà a partire da quel momento la dottrina Kissinger sul «consenso», che presupponeva il negoziato permanente, andò in prescrizione, e la Nato – soprattutto durante la presidenza Clinton – ha esteso i propri confini, aggiungendo quattordici nuovi membri.
Lucio Caracciolo ha ricordato le parole di George Kennan – ideatore nel 1947 della politica del “contenimento”, cioè della necessità di impedire l’espansione del comunismo in altre nazioni, che nel 1997 ha espresso costernazione per la scelta dell’amministrazione Clinton di aggregare Polonia, Ungheria e Cechia alla Nato: «Mi si spezza il cuore per quello che sta accadendo. Non riesco a vedervi altro che una nuova Guerra fredda, probabilmente destinata a trasformarsi in calda, e la fine dello sforzo di costruire una democrazia funzionante in Russia. Vedo anche una totale, tragica e assolutamente non necessaria fine di una accettabile relazione fra quel paese e il resto dell’Europa».
Ed è ancora Caracciolo ad aver individuato «il doppio sottotesto cifrato» inscritto sul «monumento della superpotenza unica» all’inizio della guerra contro Slobodan Miloševic senza che la Russia fosse avvertita (tanto che l’allora primo ministro Euvgenij Primakov, in viaggio d’affari verso Washington, fu spinto a invertire la rotta per rientrare umiliato a Mosca, il 24 marzo 1999), e il bombardamento non accidentale all’ambasciata di Cina a Belgrado (7 maggio).
Geotecnologia e connettività
A partire dalle rivoluzioni industriali, il controllo delle tecnologie e della connettività (prima le rotte oceaniche, ora la supply chain globale), ha rappresentato l’elemento decisivo nella determinazione dell’ordine mondiale. Per produrre tecnologie occorrono fonti energetiche, minerali e metalli pregiati – ricerca che si è rivelata determinante nelle colonizzazioni, nella guerra in Iraq e Libia, e nella stessa guerra del Donbass.
Viviamo nel tempo in cui l’intelligenza artificiale necessita di essere nutrita di informazioni “pregiate”: questa guerra – duole dirlo – può servire per testare potentissime armi, anche cibernetiche, di nuova generazione e per raccogliere i dati necessari per costruire modelli di scenari militari.
In occidente, in ossequio all’ideologia del neo-liberismo, lo stato si è progressivamente disimpegnato dal proprio ruolo di indirizzo dei processi economici (in Italia previsto dagli artt. 41-43 della Costituzione), progressivamente delegato alle forze del mercato. Stati e multinazionali hanno promosso le delocalizzazioni verso la Cina e con esse ingenti perdite di posti di lavoro, elevati profitti industriali, accesso al mercato interno e trasferimento di tecnologie.
Nel 2001 Pechino è stata ammessa al Wto pur in presenza di vantaggi asimmetrici: basso costo del lavoro; limitazioni alle attività delle imprese straniere e obbligo di trasferimento tecnologico. Il retropensiero, rivelatosi poco lungimirante, era che l’ingresso nelle dinamiche del commercio mondiale avrebbe determinato l’implosione del sistema politico. «Da decenni «scommettere contro la Cina», prevedere il suo schianto imminente, si è rivelato un azzardo» è stata la sintesi di Federico Rampini.
La Cina, con la guida del partito comunista, è diventata in un primo momento la fabbrica del mondo, ora la potenza tecnologica destinata ad assurgere nel 2031, dati Cebr, al posto di prima economia del mondo.
A partire dal 2020, numerosi think tank americani (tra questi il China Strategy Group – guidato dall’ex amministratore delegato di Google Eric Schmidt) hanno lanciato l’allarme: la Cina ha superato gli Stati Uniti nell’intelligenza artificiale e in altre tecnologie emergenti – che, aggiungiamo, offrono un contributo determinante per la capacità nucleare civile e militare, per le missioni nello spazio e la produzione di armamenti sempre più sofisticati, come dimostrano le notizie sugli aerei ipersonici.
Persino tra i social media la piattaforma più diffusa non è statunitense, ma cinese (TikTok). Gli stessi think tank ora chiedono un government redesign e quindi un ruolo di indirizzo politico e strategico dell’amministrazione, al fine di recuperare il ritardo accumulato e tutelare la sicurezza nazionale.
I numeri sono impietosi: il disavanzo commerciale Usa-Cina nel 2021 è stato di $ 317 miliardi; Pechino controlla il 5,6 per cento del debito Usa e ha le maggiori riserve valutarie ($ 3.162 miliardi); nella classifica 2021 di Fortune 500, le imprese cinesi erano 135, quelle Usa 122; la Cina è il primo paese per richieste di brevetti e trasforma più del 70 per cento delle terre rare (la cui estrazione in occidente è resa difficile dai significativi costi ambientali). La Cina, al contrario degli Usa, ha investito nella realizzazione capillare di infrastrutture e reti intelligenti (strade, aeroporti, ferrovie, porti, fiumi, banda larga e 5G, energia, data center e piattaforme digitali integrate). La lista potrebbe continuare a lungo.
La geopolitica di Pechino è divenuta più assertiva e ora esprime una nuova postura: si veda l’ingresso nell’accordo per la riduzione dei dazi doganali Rcep (2020) a cui aderiscono i paesi Asean, ma anche Giappone, Corea del Sud, Australia – storici nemici di Pechino. Aggiungiamo il ruolo nelle organizzazioni regionali, a partire dalla Shanghai cooperation organization, i cui membri sono Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan e, da ultimo, Iran.
La rotta degli eventi di queste settimane parte da Mosca, attraversa il pianeta per giungere inesorabilmente a Pechino. Il problema è la “sfida sistemica” della – e alla – Cina, al centro dell’agenda della prima visita di Joe Biden in Europa, e che ha convinto numerosi esperti a parlare di ritorno alla Guerra fredda. Nel suo La guerra del Peloponneso, lo storico Tucidide spiegava che quando emerge una nuova potenza all’interno di un territorio circoscritto, il conflitto diventa inevitabile (il riferimento era alla guerra tra Atene e Sparta): stiamo parlando della cosiddetta «trappola di Tucidide». È questo il destino che ci attende?
Interdipendenza e crisi alimentare
La globalizzazione ha acuito l’interdipendenza tra gli stati e tra le potenze, con il pendolo che ora batte in oriente: è sufficiente il blocco o il ritardo delle navi container cinesi perché le aziende occidentali siano prive dei manufatti necessari alla produzione e i negozi, anche americani, rimangano sprovvisti di merci da esporre.
Sulla dipendenza da idrocarburi e gas si è detto tutto. A ciò si aggiunge la crisi alimentare: Russia e Ucraina sono rispettivamente il primo (19,5 per cento) e il quinto (8,97 per cento) paese esportatore di grano. Il blocco navale sul Mar Nero impedisce il commercio e il raccolto dell’Ucraina del prossimo anno è probabilmente compromesso.
I prezzi delle commodity sono saliti alle stelle, come dimostrato dalle contrattazioni presso la Borsa merci di Chicago, e si è aperto un risiko mondiale (su cui la Cina si è mossa in anticipo) per l’accaparramento di risorse energetiche e alimentari – in questo caso abbandonando ogni valutazione di tipo etico-politico sui regimi detentori delle materie. Nel frattempo il prezzo del pane in numerosi paesi ha raggiunto livelli insostenibili. La lista delle sanzioni non include i prodotti alimentari: anzi è stato Putin a minacciare la sospensione delle esportazioni verso i paesi nemici.
Crisi dell’occidente e delle democrazie
Il tema della crisi delle democrazie è stato oggetto di analisi soprattutto da parte degli studiosi americani. Saskia Sassen ha scritto: «Gli ultimi due decenni hanno visto crescere rapidamente il numero di persone, imprese e luoghi espulsi dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo». Il divario nella distribuzione della ricchezza è aumentato a dismisura: il Global wealth report di Credit Suisse conferma la tendenza alla polarizzazione della ricchezza; globalmente, il numero di milionari è di 56 milioni; l’1,1 per cento dei percettori di reddito detengono il 45,8 per cento della ricchezza globale; ciò senza dimenticare i dislivelli ingiustificati tra gli emolumenti di top manager e dipendenti. Un discorso a parte meritano le piattaforme digitali e i social web, che generano immensi profitti, spesso esentasse, e che sono capaci di orientare, in assenza di regolamentazione, i convincimenti politici, culturali e i consumi – nonché di bannare persino il presidente in carica degli Stati Uniti. Viene da domandarsi se i leader di queste piattaforme non siano diventati i veri autocrati dell’occidente.
Tutti rivendicano la necessità di ridurre le diseguaglianze, ma ogni tentativo in tale direzione si scontra con parlamenti nazionali pronti a difendere le classi agiate e le lobby – con la conseguenza del ricorso esasperato al debito che, oltre a gravare sulle spalle delle future generazioni, sottrae risorse alle politiche sociali.
Il primo importante segnale era venuto con l’elezione di Donald Trump, resa possibile dalla crisi della classe media, dovuta a deregolamentazioni, delocalizzazioni, e affermazione dell’economia dei robot e delle piattaforme digitali, che hanno provocato perdite di posti di lavoro, povertà, disperazione e solitudine. L’Europa non è indenne da questi processi. Al primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, Macron ha ottenuto solo il 27,85 per cento dei consensi tra i votanti, in calo, a conferma del disagio popolare che si estende anche sul tema della guerra. Ora attendiamo l’esito delle elezioni di giugno per l’assemblea nazionale.
Dialogo politico e culturale
Sia gli Stati Uniti che l’Europa devono interrogarsi sulla fragilità delle società contemporanee, che non nasce dalle aggressioni degli autocrati, quanto piuttosto dalle debolezze istituzionali e dalle ingiustizie interne. Si ha al contrario l’impressione che le democrazie da un lato nascondano le proprie crisi, mentre dall’altro intervengano nei conflitti – prima da protagonisti, ora inviando, non solo in una logica di soccorso, armi con un altissimo potere distruttivo (ricordiamo l’eccezione di Israele, che ha deciso di inviare solo giubbotti antiproiettile): una visione che produce effetti boomerang disastrosi se consideriamo che nell’opinione pubblica internazionale (e nazionale) è aumentato il numero delle persone ostili alle decisioni assunte dall’occidente.
Paradossalmente sono state la Cina e l’India, che sommano il 35 per cento della popolazione mondiale, ad aver fatto propria la dottrina Kissinger, rifiutandosi di entrare nel conflitto e di aderire alle sanzioni, ed esprimendo, almeno nel caso della Cina, dure critiche all’operato degli Stati Uniti. Significativa la posizione defilata dell’India, alleato dell’occidente, al tempo stesso cliente della Russia per gli armamenti, nonché acerrimo rivale di Pechino.
La democrazia si rafforza se diventa capace di offrire un orizzonte colmo di speranze, aspettative di vita e promozione sociale, e questo richiede una visione delle relazioni internazionali nella quale torni centrale la volontà di una coesistenza pacifica tra civiltà e sistemi diversi. Questa è la missione dell’Europa: discutere del futuro condiviso e di come – dopo aver metabolizzato errori e successi compiuti nei trenta anni che ci separano dalla caduta del Muro di Berlino – ci si confronta con il mondo, rispettosi delle differenze. Perché coloro i quali prospettano uno scontro tra democrazie e autocrazie appaiono vittime di un ideologismo che può produrre conseguenze catastrofiche. Ricordiamo che una parte rilevante del pianeta non ha ancora cicatrizzato la memoria dalle ferite inferte da colonialismi, oppressioni, sfruttamenti, mancanza di aiuti e persino tentativi di esportazione della democrazia con la guerra.
Una governance globale
La guerra impone di guardare ai numeri. La mozione di condanna dell’Onu ha avuto il seguente esito: 141 favorevoli; 5 contrari; 35 astenuti; 12 assenti. In termini di popolazione, gli stati a favore della risoluzione rappresentano il 44,5 per cento, ovvero 3,51 miliardi di persone; contrari, astenuti e assenti il 55,5 per cento, pari a 4,38 miliardi di persone, che in gran parte vivono in Asia e Africa.
Le sanzioni alla Russia che, ricordiamo, sono state decise da Nato, G7 e Ue, non sono state adottate dall’81 per cento degli stati (popolazione di circa 7 miliardi, 87,5 per cento della popolazione mondiale, 41 per cento del Pil mondiale), e approvate dal 19 per cento dei paesi (circa 985 milioni persone, 12,5 per cento della popolazione mondiale e 59 per cento del Pil mondiale).
I dati confermano che è indispensabile una strategia capace di ricostruire un ordine mondiale che non può essere il nostro, ma quello in cui noi tutti sappiamo convivere con gli altri. La complessità dei problemi, sia a livello nazionale che internazionale, richiede una governance globale – il conflitto in corso non può essere affidato alla negoziazione tra Russia e Ucraina – in grado di garantire una gestione equilibrata tra i diversi interessi, e una pace duratura, secondo l’insegnamento di Kissinger – che peraltro già nel 2014 aveva proposto la neutralità dell’Ucraina.
In un’intervista al Financial Times del 7 maggio l’ex segretario di stato ha messo in guardia sulle conseguenze catastrofiche provocate dal possibile impiego di nuove armi. Kissinger è consapevole che viviamo in una «nuova èra» caratterizzata dalla diffusione di tecnologie ad alto potenziale distruttivo: ciò impone una nuova visione della diplomazia e consapevolezza delle conseguenze della guerra.
Avanza invece la percezione che il nuovo assetto internazionale debba incardinarsi sulla contrapposizione, una sorta di guerra eterna, tra le democrazie e le autocrazie – peraltro senza spiegare le profonde diversità tra i sistemi a matrice autoritaria, si vedano le differenze tra Russia e Cina, e senza tener conto che le regole della diplomazia e della leadership impongono un uso sapiente delle parole.
Giorgio Meletti su Domani ha osservato che nella base americana di Ramstein, allargata a 43 paesi, si è avuta «una svolta chiara e pericolosa. L’obiettivo non è più salvare l’Ucraina ma battere Putin». Il Segretario del Pd Enrico Letta ha dichiarato che «a Ramstein si è espressa una leadership americana. Per questo dobbiamo cambiare passo».
L’opinione pubblica è convinta che vi sia una volontà di escalation del conflitto (l’ultimo sondaggio dice che il 43,6 per cento degli italiani è contrario all’invio delle armi, contro un 36,5 per cento favorevole): se una pace ci sarà, questa avverrà alla fine di una guerra che si preannuncia lunga, che produrrà una catastrofe umanitaria immane e che potrebbe degenerare con esiti tremendi.
La crisi internazionale ha evidenziato ancora una volta il fatto che le maggiori potenze si muovono nella prospettiva della promozione dell’interesse nazionale – approccio che rappresenta uno dei maggiori vulnus dell’Italia, come testimonia la vicenda della guerra alla Libia – e persino delle scadenze elettorali a breve. L’Italia, il paese più fragile tra i membri fondatori dell’Ue, è quello che sta pagando il prezzo più alto per la guerra e per le sanzioni –, prezzo pagato innanzitutto dai ceti meno abbienti e dalla classe media.
Garanzie condivise
Per Walter Benjamin, il passato è «dinamite» sepolta, che deve essere innescata andando a ricercare quanto è stato occultato in ragione dei rapporti di forza: lo storico «ha da spazzolare contropelo la storia» per impedire che i dominati restino tali in eterno.
Il costituzionalista Gaetano Azzariti ha citato Giambattista Vico per ricordare che gli esiti delle civiltà «dipendono dalle reali forze in campo e dalla effettiva modalità di composizione dei poteri», e che «la stessa legge dei cicli è dimostrazione della non linearità della storia: proprio quando sembra raggiungere la sua maturità, essa può sempre cadere in preda di forze reali che ne decretano il collasso». Azzariti ci ricorda che è «meglio imparare dalla storia che dimenticarla e rimuoverla». E papa Francesco ha chiesto: «Un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso – un modo diverso di impostare le relazioni internazionali». «Fermatevi», è il grido che risuona da Assisi.
Occorre ritornare allo spirito di Helsinki, lo ha ribadito il presidente Sergio Mattarella, e alla dottrina Kissinger. Questo significa garantire la sicurezza a tutti i paesi europei, e quindi ristabilire quel quadro di garanzie condivise che è mancato negli ultimi trent’anni. Consapevoli che saremo costretti a scegliere il realismo politico, lo stesso che ha spinto l’occidente, nei casi della frantumazione dell’Urss e della Jugoslavia, in nome della salvaguardia di maggioranze etniche e religiose presenti nei territori in conflitto, a legittimare e a imporre assestamenti dell’ordine internazionale. Il tutto consapevoli che la disseminazione dell’odio tra le nuove generazioni, incidendo pesantemente sui processi della memoria – come è accaduto in passato – provocherà strascichi impossibili da calcolare.
Ripartiamo dalla storia, ci ricorda Azzariti, «non fosse altro perché le cause della crisi sono in noi».
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