- Un recente rapporto del Pentagono sulle operazioni americane contro lo Stato islamico mette in luce una ripresa di attività del movimento terroristico, accentuando la sua potenziale pericolosità.
- C’è ancora bisogno di truppe occidentali sia in Siria che in Iraq: Baghdad dipende ancora molto dalle truppe americane e i curdi siriani da soli non ce la fanno a organizzare la difesa.
- Nella Siria orientale il gruppo sta rimettendo radici, favorito dalla situazione caotica del paese di Assad, dove la ricostruzione non è ancora partita, la situazione economica è dura per tutti e le occasioni di rancore e settarismo etnoreligioso rimangono molto vivaci.
Il sito mediorientale al Monitor, solitamente ben informato e noto per la sua prossimità agli Stati Uniti, rivela che un recente rapporto del Pentagono sulle operazioni americane contro lo Stato islamico in Iraq e Siria (Isis), mette in luce una ripresa di attività del movimento terroristico, accentuando la sua potenziale pericolosità.
Il rapporto raccomanda che la coalizione militare degli Stati Uniti e degli altri partner, inclusa l’Italia, rimanga dispiegata nell’area del “siraq”, pena il fallimento dell’intera missione iniziata nel 2014.
C’è da scontare un certo contraccolpo di ciò che è avvenuto a Kabul, ma si tratta comunque di un tema scottante anche per il nostro paese, che si trova pienamente coinvolto. Uno dei problemi è che il confine tra Iraq e Siria rimane un’area sensibile per le attività jihadiste, poco controllata dai rispettivi stati.
Le difficoltà economiche dovute alla guerra a cui si assommano quelle della pandemia, continuano a lasciare intere zone senza presenza effettiva delle istituzioni in entrambi i paesi.
Inoltre una forte siccità, soprattutto in Siria, sta causando una preoccupante carestia mentre le agenzie umanitarie non possono operare liberamente. Tali vicende rendono più facile il reinsediamento progressivo delle forze jihadiste ancora attive.
Elezioni in Iraq
A Baghdad le recenti elezioni stanno provocando una nuova fase di instabilità politica che rendono più difficoltoso l’impegno attivo della coalizione anti Isis, già messa a repentaglio dalla presenza aggressiva e minacciosa delle milizie filoiraniane operanti in entrambi i paesi.
Sia le forze di sicurezza irachene che i curdi siriani continuano a dipendere dall’addestramento e dal supporto americano per le operazioni a terra e per quelle di controllo del territorio e di intelligence, oltre che di ricognizione per l’ausilio degli attacchi aerei. Per ora non sono previsti cambiamenti nel numero delle truppe statunitensi in Iraq, attualmente pari a circa 2.500.
Secondo il Pentagono, sebbene l’Isis abbia diminuito i suoi attacchi ne ha aumentato il livello di sofisticazione, mostrando un «livello più elevato di maturità operativa». In Siria gli Stati Uniti mantengono circa 900 soldati da quando è definitivamente tramontata l’idea di ritirarli.
Gli ordini sono di sostenere i curdi che da soli hanno dimostrato di non avere la capacità di condurre operazioni in profondità. Ora pare che l’Isis si sia consolidato nel deserto e sia pronto ad un salto di qualità insurrezionale, oltre alle operazioni coperte di infiltrazione nel campo profughi di al Hol in cui in realtà non ha mai smesso di reclutare e indottrinare.
I limiti delle forze curde
Da anni i curdi sostengono infatti di non avere la capacità di controllare il campo (in realtà si tratta di un sistema di campi), chiedendo in particolare agli occidentali di riprendersi i loro concittadini (soprattutto donne e bambini) che avevano aderito alla macabra avventura dello stato islamico.
Salvo alcuni casi particolari, finora nessun paese occidentale ha deciso di venire incontro alle richieste curde. A preoccupare ulteriormente le autorità di Washington sono tanti segnali di deterioramento della situazione generale dell’area.
La zona di Idlib nel nord ovest della Siria, quella che dovrebbe essere controllata dai turchi, è scossa, oltre che da endemici combattimenti tra diverse fazioni, ora anche da una crisi economica dovuta alla caduta della lira turca che viene normalmente utilizzata.
Vari attacchi a diverse prigioni siriane e conseguenti evasioni soprattutto di militanti iracheni dell’Isis, fanno pensare che vi sia un disegno eversivo sostenuto dai gruppi armati filoiraniani ancora presenti in Siria, malvisti anche dai russi.
Inoltre c’è il timore che gli attacchi dello Stato islamico nella provincia irachena di Diyala finiscano per innescare nuovamente l’odio settario tra sunniti e sciiti, a tutto vantaggio del jihadisti.
Il metodo di al Qaida
Sconfitto territorialmente nel marzo 2019, l’Isis torna a farsi pericoloso anche se opera in maniera diversa, più simile ai suoi nemici interni di al Qaida, mostrandosi il meno possibile e concentrandosi in operazioni mordi e fuggi.
Nella terra di nessuno, sostanzialmente il deserto della Siria orientale, il gruppo sta rimettendo radici, favorito dalla situazione caotica del paese di Assad, dove la ricostruzione non è ancora partita, la situazione economica è dura per tutti e le occasioni di rancore e settarismo etnoreligioso rimangono molto vivaci.
© Riproduzione riservata