Papa Francesco è di ritorno verso Roma, ma si tirano già le somme del primo viaggio in assoluto di un pontefice in Iraq, un primato storico, giunto dopo oltre un anno di stallo per la pandemia. Tra Baghdad, Najaf, Ur, Mosul, Erbil e Qaraqosh, il papa ha attraversato l’intero paese con eccezionali misure di sicurezza per visitare i luoghi dove sono ancora aperte le ferite di una guerra logorante e forse mai conclusa. Per preservare l’incolumità di Francesco è stata utilizzata un’auto blindata ma non solo, secondo quanto riportato da Arab News sono stati impiegati circa 10mila uomini delle forze speciali di sicurezza.

Scegliendo per sé il titolo di “pellegrino”, il papa ha scritto il nuovo capitolo della chiesa cattolica del post pandemia. La Fratelli tutti, non più mera enciclica, è diventato manifesto programmatico del suo pontificato, come mostrano i frequenti rimandi nei discorsi tenuti in questi ultimi giorni. Nella prossimità minacciata dalle norme sanitarie, che più volte sono state disattese – come denuncia il Washington Post e mostrano le fotografie del viaggio – Francesco è tornato a riproporre il modello di vita comunitaria come antidoto alla chiusura in sé stessi, madre di ogni fondamentalismo.

Con questo approccio, ha potuto immergersi nei gangli politici e sociali e sciogliere i nodi, non più costitutivi di un paese, ma dell’uomo stesso. «Nodi che ostacolano la tessitura della fraternità. Sono nodi che portiamo dentro di noi; del resto, siamo tutti peccatori. Tuttavia, questi nodi possono essere allentati dal perdono e dal dialogo fraterno, portando pazientemente i pesi gli uni degli altri e rafforzandosi a vicenda nei momenti di prova e di difficoltà» ha detto rivolgendosi al clero iracheno nella cattedrale siro-cattolica Nostra Signora della Salvezza di Baghdad.

La pandemia

Comunità significa scoprire le radici comuni. Il papa ha scelto i luoghi che portano con sé la traccia del patriarca Abramo, che gli ebrei chiamano «radice» e i musulmani nella Sura 14 «il grande profeta del monoteismo». Nel nome del patriarca, Francesco si è rivolto a musulmani ed ebrei per realizzare «il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra». A Ur dei Caldei, tra i resti dell’antica città sumerica, il pontefice ha ricordato che la tolleranza è un’esigenza. «Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello». Il dialogo è stata la cifra degli incontri del papa, che non ha rinunciato a celebrare la messa allo stadio Franso Hariri di Erbil, nonostante la necessaria cautela legata alla pandemia. «Molte persone vogliono vedere il papa, ma siamo tutti preoccupati. Il paese non è davvero ben preparato per questo» ha dichiarato Raghad al Suhail, professore di Virologia e immunologia presso l’università di Baghdad al Washington Post. Durante gli incontri il papa non ha sempre usato la mascherina e ha colpito la mancanza delle precauzioni anche tra gli stessi iracheni, che ancora attendono una prima tornata di vaccini. Pur nelle dimensioni ridotte, la messa celebrata a Erbil è stata il simbolico riflesso di quella dello Zayed Sports City Stadium di Abu Dhabi nel 2018, alla presenza di circa 135mila persone.

L’incontro con al Sistani

Ha reso il viaggio storico l’incontro tra papa Francesco e il grande ayatollah al Sistani a Najaf, la città santa degli sciiti. A porte chiuse e senza la firma di un documento congiunto, la visita segna un primo, decisivo passo nel dialogo tra due fedi che spesso la storia ha contrapposto. La dimensione religiosa dell’incontro ha però anche un peso politico. Al Sistani è il volto di una fazione che, almeno dagli anni Sessanta, ha subìto diversi attacchi nel paese, tra cui l’uccisione dell’ayatollah Abdul Majid al Khoei dentro le mura della città santa nel 2003. Da allora il capo religioso ha esercitato sempre più influenza sugli sciiti moderati, strattonati dalla frangia iraniana di ideologia khomeinista. Nel giugno 2014 l’anziano leader sciita ha preso una ferma posizione contro il terrorismo dell’Isis legittimando anche l’uso della forza laddove inevitabile. In occasione dell’incontro con papa Francesco ha ribadito il dovere delle autorità nel sostegno dei cristiani perseguitati con «la speranza che sarà presto superata l’attuale tragedia e che l’autodeterminazione dei cittadini cristiani, come di tutti gli altri iracheni, consenta di vivere in sicurezza e pace». Si tratta della prima, esplicita dichiarazione di sostegno alle minoranze cristiane nel paese. L’incontro con al Sistani ha dato i suoi frutti: per onorare gli incontri a Najaf e Ur, il primo ministro Mustafa al Kadhimi ha istituito il 6 marzo la Giornata nazionale della tolleranza e della coesistenza in Iraq.

La lotta al terrore

In sinergia con la posizione di al Sistani, papa Francesco ha toccato con mano la pagina buia del terrore visitando Mosul, ultimo avamposto raso al suolo dall’Isis, liberato quattro anni fa, e oggi tutto da ricostruire. In papa Francesco i toni di condanna al fondamentalismo non prendono mai la forma di toni diretti, come in papa Benedetto XVI che parlava di azione criminale che copre «d’infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale» (Discorso al corpo diplomatico, 2006). Per Francesco il terrore non merita riflessioni, ma risposte.

Come la preghiera di suffragio per le vittime della guerra pronunciata a Hosh al-Bieaa, la piazza delle quattro chiese di Mosul: la ricucitura simbolica di una ferita ancora sanguinante. «La morte ci ricorda con forza che l’incitamento alla guerra, gli atteggiamenti di odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi» ha detto Francesco ricordando i 48 fedeli uccisi nella cattedrale siro cattolica di Baghdad nel 2010. Se la Bibbia si apre con l’omicidio di Abele dettato da una motivazione parzialmente religiosa, il papa ribadisce che «sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio!» (Discorso interreligioso a Ur).

La contraddizione della guerra

C’è un luogo dove il papa tocca il dramma dell’umanità: il Kurdistan iracheno. La regione, un tempo crocevia tra le repubbliche centrasiatiche, è oggi in una spirale di crisi per il crollo del prezzo del petrolio, a cui si aggiunge quella sociale dei campi profughi affollati. L’unica stabilità resta quella politica, con il presidente Barzani rampollo di un potere tramandato per linea diretta, precario ago di una bilancia che pende fuori da quella frontiera, tra Iran e Turchia. In questo caos nero, nei posti dove i curdi prima, i peshmerga poi, sono stati armati da svariati paesi per rivendicare autonomie o libertà, papa Francesco ha potuto guardare l’altra faccia di quell’accorato «tacciano le armi» pronunciato nel palazzo della Repubblica a Baghdad.

Pochi anni fa sarebbe stata impensabile la presenza del papa a Qaraqosh, la città dell’Iraq settentrionale che porta il bilancio più drammatico del terrorismo: nel 2014 l’Isis l’ha ridotta a ferro e fuoco distruggendo case e devastando chiese. Davanti a una furia indicibile, in una notte sono fuggiti 120mila cristiani e ancora oggi le case vuote, in parte sventrate, mostrano il triste volto di un lungo esodo quasi biblico. In queste terre, l’odio fondamentalista ha corrotto il paradigma stesso di Abramo, che lasciò Ur su ordine di Dio, ma per cercare una terra di pace. Ora nei luoghi si respira una lenta ripresa, resa difficoltosa dalle questioni di proprietà che oppongono le comunità cristiane e alcuni membri delle milizie sciite, come ha denunciato più volte il patriarca dei cattolici caldei in Iraq, il cardinale Sako.

A Qaraqosh nella cattedrale dell’Immacolata concezione che oggi è stata ricostruita dopo essere stata, per tre anni, il poligono di tiro dei miliziani dell’Isis, il papa ha ricordato che «questo nostro incontro dimostra che il terrorismo e la morte non hanno mai l’ultima parola. L’ultima parola appartiene a Dio e al suo figlio vincitore del peccato e della morte. Anche in mezzo alle devastazioni del terrorismo e della guerra, possiamo vedere, con gli occhi della fede, il trionfo della vita sulla morte».

La contraddizione della fede

Il viaggio nella terra dove tre fedi abramitiche hanno avuto inizio è stato per papa Francesco un’immersione nella contraddizione stessa della fede che, se vestita di politica, rischia di diventare ideologia: lo mostrano i settarismi e tutte le forme di estremismo di cui è costellato il medio oriente, «Siria martoriata» compresa. Qui, tra le rovine di un mondo in parte da ricostruire, Francesco lancia la speranza che ben rappresenta la Ziqqurat monca nella piana di Ur, luogo in rovina, ma da cui partire per guardare in alto. «Non stanchiamoci mai di guardare il cielo, di guardare queste stelle, le stesse che, a suo tempo, guardò nostro padre Abramo» ha esortato il papa nella piana di Ur. Da questo viaggio, «come pellegrino e penitente», papa Francesco porta con sé l’insegnamento della fede per portarlo oltre, verso un occidente che, al contrario, ha ridotto il suo credo al motto believing without belonging: il peregrinare di Abramo, tanto quanto dei cristiani di oggi, è la più grande lezione di un’appartenenza trasversale che il nord del mondo pare aver dimenticato.

 

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