Proprio mentre l’agenzia Xinhua annunciava la data dell’apertura (il 16 ottobre prossimo) del XX congresso del partito comunista, martedì scorso su Weibo (il twitter cinese) un articolo sulla “porta chiusa” dei Ming e dei Qing stava suscitando clamore e migliaia di commenti. Secondo il controverso saggio, sarebbe sbagliato bollare come “isolazioniste” le chiusure agli scambi con il mondo esterno volute dalle ultime due dinastie dopo le leggendarie spedizioni navali dell’ammiraglio Zhang He, quando l’imperatore Xuando, nel 1434, decretò la “interdizione marittima” (hăijìn).

Il testo –inizialmente pubblicato sulla rivista dell’Accademia cinese di storia, non firmato e attribuito a un anonimo “gruppo di ricerca” – conclude che quella politica fu una “auto-limitazione” a tutela degli interessi nazionali e per difendersi dall’invasione straniera, che ritardò la «sanguinosa espansione a oriente dei colonialisti occidentali». E che la “porta chiusa” durante gran parte dell’èra Ming (1368-1644) e Qing (1644-1912) «non ha bloccato lo sviluppo del commercio estero cinese e l’apprendimento reciproco delle culture cinese e occidentale».

In un contesto nel quale gli avvenimenti del paese (e del partito) vengono continuamente riscritti per assecondare le strategie delle diverse leadership, in molti hanno gridato al “ribaltamento della storia”: un tentativo di riproporre, sdoganandola, l’autarchia mentre la Repubblica popolare cinese è tagliata fuori dal resto del mondo da due anni e mezzo per effetto della politica “contagi zero” voluta da Xi Jinping per contrastare l’epidemia di SARS-CoV-2.

Le vittime dei lockdown

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La diatriba online ha toccato i nervi scoperti di quei settori della società (uomini d’affari, studenti, classe medio-alta, ricercatori) abituati a confrontarsi con gli stranieri che ora temono che, passata la pandemia, il paese possa tornare a isolarsi come negli anni Sessanta, quando, sotto Mao, tanto i sovietici quanto gli statunitensi erano nemici della Cina. «Il pericolo più grande di questo documento è che dia alla gente un’impressione sbagliata: che se la Cina oggi è chiusa, ciò è in risposta all’invasione del capitalismo occidentale, e che questa chiusura possa rappresentare anche una politica estera al passo con i tempi», ha commentato un blogger con oltre 340mila follower.

Di parere opposto l’editorialista del nazionalista Global Times, Hu Xijin, che si è inserito nel dibattito per ribadire la posizione ufficiale del governo, assicurando che la Repubblica popolare cinese resterà aperta, prova ne è l’accordo sull’accesso dato alle autorità di controllo statunitensi ai conti e agli organigrammi delle compagnie cinesi quotate negli Usa, che, grazie all’intesa siglata il 26 agosto scorso, non rischieranno di essere espulse dai mercati dei capitali a stelle e strisce.

Le attuali chiusure sarebbero insomma transitorie, dettate dalla difficoltà di fronteggiare la pandemia con strumenti (vaccini, ospedali, terapie intensive) che nella seconda economia del mondo non sono all’altezza di quelli dei paesi avanzati. Ritardi che sono certamente all’origine delle misure draconiane imposte dalle autorità, come i continui lockdown che, anche negli ultimi giorni (a Chengdu, Shenzhen e in altre metropoli), hanno costretto in casa la popolazione.

Un paese mutato

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Tuttavia durante la “guerra popolare” contro il Covid-19 si sono manifestati in maniera sempre più evidente altri segnali che rivelano che quello che sta prendendo forma dopo dieci anni di Xi Jinping è un paese molto diverso dalla swinging China che nel 2001 entrò nell’Organizzazione mondiale del commercio e che sette anni più tardi celebrò la sua “ascesa pacifica” durante le Olimpiadi di Pechino.

Come ha premesso Patricia Flor, «tutti ora sentono la necessità di aumentare la resilienza in patria e di salvaguardare la sovranità strategica in un contesto internazionale instabile». La nuova ambasciatrice tedesca a Pechino ha però lamentato che «è anche un dato di fatto che alcuni concetti, come la doppia circolazione, sembrerebbero potenzialmente limitare gli scambi tra noi e la Cina e rischiano di danneggiare la nostra capacità di affrontare insieme le sfide che dobbiamo fronteggiare».

La “doppia circolazione interna e internazionale” (guónèi guójì shuāng xúnhuán) è il nuovo modello di sviluppo lanciato da Pechino in cui il mercato interno e quello estero dovrebbero rafforzarsi a vicenda, ma con il mercato interno come pilastro, grazie alla produzione di merci cinesi ad alto valore aggiunto e all’aumento dei consumi. Allo stesso modo la strategia del “benessere comune” (gòngtóng fùyù) guarda alle disuguaglianze tra la popolazione cinese (accentuatesi durante la pandemia) e prevede una redistribuzione della ricchezza attraverso l’efficienza (del mercato), l’equità (della tassazione) e l’etica (della filantropia).

Mentre la parola d’ordine per lo sviluppo del futuro – essendo stata negato a Pechino l’accesso alle tecnologie più avanzate dell’occidente – resta quella della “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn).

Un’altra rivoluzione?

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È prevedibile che la Cina guarderà di più a se stessa anche perché il suo dominio del commercio internazionale è destinato a ridimensionarsi. Infatti anzitutto, con lo sviluppo dell’economia nazionale, continuerà ad aumentare il peso della domanda interna, mentre l’export (che, secondo i dati della Banca mondiale, dal 2006 al 2020, è sceso dal 36 per cento al 18,5 per cento del Pil) calerà ulteriormente.

Inoltre, con l’incremento dei salari e della tutela ambientale, si è eroso il vantaggio competitivo del paese per quanto riguarda le produzioni a basso valore aggiunto, gradualmente trasferite altrove. Terzo, incentivi ad hoc stanno contribuendo a riportare la produzione in quei paesi avanzati che l’avevano più massicciamente delocalizzata nella “fabbrica del mondo”.

Infine, le tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti e l’Unione europea – per decenni i principali partner commerciali della Cina – contribuiranno all’apertura di nuove imprese in aree geograficamente più vicine agli Usa e alla Ue.

Isolamento dall’occidente (puntando su relazioni sempre più strette col sud del mondo) o rilancio dell’apertura?

Più che per lo scontato, per quanto inedito, terzo mandato a guidare il partito che verrà attribuito a Xi dagli oltre duemila delegati che si riuniranno per una settimana nella Grande sala del popolo in piazza Tiananmen, il XX congresso è importante per le indicazioni che fornirà su questo dilemma.

Dai discorsi di Xi (che per l’occasione potrebbe essere insignito anche del titolo di “leader del popolo”) dalle biografie dei volti nuovi dell’Ufficio politico (25 membri) e del suo comitato permanente (sette componenti), che saranno scelti (ufficialmente dal nuovo Comitato centrale, di fatto dai leader uscenti e da papaveri del Pcc in pensione) sarà possibile intuire come la Cina reagirà a una situazione affatto inedita dai tempi di Mao, caratterizzata da un deciso rallentamento della crescita, dalla determinazione delle economie avanzate a rallentarne lo sviluppo tecnologico, e dal pericolo di uno scontro militare su Taiwan e sul Mar cinese meridionale.

«Il congresso esaminerà a fondo la situazione internazionale e interna, coglierà in modo completo le nuove esigenze per lo sviluppo della causa del partito e del paese nel nuovo cammino nella nuova era, nonché le nuove aspettative del popolo», ha riassunto l’Ufficio politico nell’indire la riunione dell’assise quinquennale.

Tra i grandi temi che verranno discussi spiccano quelli del “benessere comune”, della “costruzione del partito” (dăng jiàn), ovvero dell’adattamento – strutturale e ideologico – del Pcc alle insidie della nuova fase, e quello della costruzione di una “comunità umana dal futuro condiviso” (rénlèi mìngyùn gòngtóngtĭ), il fulcro della strategia diplomatica di Xi, che mira ad aumentare il peso della Cina all’interno delle istituzioni e delle relazioni internazionali puntando sulle interconnessioni (vedi nuova via della Seta) e sull’aiuto reciproco tra le nazioni (come nel caso della donazione di vaccini cinesi ai paesi in via di sviluppo).

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