Regno Unito e Ue non trovano ancora un accordo commerciale ma il premier Uk viola il diritto internazionale e scatena una crisi senza precedenti
- I negoziati per un accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue sono in stallo. Londra si è impuntata su pesca e aiuti di stato, anche se ha detto di voler chiudere le trattative entro metà ottobre
- Nel pieno dello stallo il governo britannico ha scatenato il caos: ha proposto una legge che viola dichiaratamente l’accordo di divorzio con l’Ue, proprio nella parte che riguarda l’Irlanda del Nord
- Quello è il punto più delicato di Brexit: il ritorno di un confine tra le due Irlande metterebbe a rischio la pace. La crisi innescata da Johnson ha ripercussioni interne, con l’Ue e persino con gli Usa
Il premier britannico Boris Johnson si scontra con l’Europa, con i democratici Usa, e persino con il suo partito, dentro il quale provoca una rivolta, per poi sedarla a fatica. Innesca il caos perché propone una legge che viola l’accordo di divorzio con l’Ue, proprio nella parte che riguarda l’Irlanda del Nord. Ora i negoziati su Brexit sono in tilt, la pace tra le due Irlande è a rischio, la crisi istituzionale è inedita.
A che punto è l’accordo
L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è già sancita, la bandiera della Union Jack è stata sfilata via dai palazzi Ue il 31 gennaio scorso, ma fino al 31 dicembre siamo dentro il periodo di transizione. Questa fase serve a Bruxelles e Londra per definire i futuri rapporti bilaterali. Il tempo stringe e i round negoziali si susseguono senza che si riesca a chiudere un accordo commerciale, e regolare così un interscambio che vale almeno 760 miliardi all’anno. L’8 settembre i due negoziatori, Michel Barnier per l’Ue e David Frost per l’Uk, si erano incontrati a Londra per l’ottavo round negoziale, che poteva essere determinante, almeno stando all’obiettivo dichiarato dai britannici: chiudere la partita entro metà ottobre.
Invece non è stato trovato nessun accordo, anzi. Sempre sfoderando l’eterna minaccia della “hard Brexit” (una uscita senza accordo), i britannici hanno fatto muro su due questioni. La prima è simbolica: lasciare il diritto di pesca in acque britanniche solo ai propri pescherecci. Fra i pescatori dell’isola, la linea del “Leave” (per l’uscita dall’Ue) trovò un sostegno acceso: finora, per fare un esempio, il merluzzo lungo la Manica è andato per il 9 per cento ai britannici e per l’84 ai francesi. L’altro nodo irrisolto è strategico, riguarda gli aiuti di stato: il mercato europeo si basa sul “level playing field”, le pari opportunità di concorrenza, il che limita gli aiuti di stato. Bisogna ora definire, con l’uscita di Londra, che margini avrà per dare aiuti alle proprie aziende. Finora ha fatto un uso degli aiuti marginale (dello 0,34 percento del pil), ma il tema ha assunto più rilievo durante la crisi da Covid-19. Johnson ha avviato una nazionalizzazione delle compagnie ferroviarie, caricando i rischi di impresa sullo stato, e vuole supportare settori strategici come le start up tecnologiche.
Lo scandalo diplomatico
Nel pieno dei negoziati, il governo ha alzato la tensione: ha calpestato una parte degli accordi già chiusi con l’Ue, violando così il diritto internazionale. Il 19 ottobre 2019 le due parti avevano siglato il “withdrawal agreement”, l’accordo di uscita del Regno Unito. Il trattato conteneva un protocollo sull’Irlanda del Nord, che mantiene Belfast ancora aggrappata al mercato comune europeo. Il punto più delicato di Brexit riguarda infatti il confine tra le due Irlande, che finora, grazie alla comune appartenenza all’Ue, è stato invisibile per merci e persone. Proprio la smaterializzazione del confine tra Irlanda del Nord (Regno Unito) e Irlanda (Ue) ha creato nel 1998 le condizioni per l’”accordo del venerdì santo”, che ha sopito il conflitto nordirlandese (i “troubles”). Quelle violenze, iniziate negli anni Sessanta, hanno lasciato il segno non solo nelle due Irlande ma pure in Gran Bretagna. A Manchester ci si ricorda ancora bene del “Manchester bombing”, la bomba fatta deflagrare nel cuore economico della città a giugno 1996, alla vigilia di una partita Russia-Germania. Boris Johnson ha sottoscritto quel protocollo, definendo l’accordo di divorzio “oven-ready” (bell’e pronto) e stravincendo poco dopo le elezioni. Ma ora, nell’impasse dell’accordo commerciale, sfodera l’Internal market bill, un progetto di legge che contraddice palesemente l’accordo sottoscritto con l’Ue. Parla cioè di “disapplicare” e “non rispettare” il trattato di divorzio, in particolare l’articolo 10 del protocollo sull’Irlanda, che riguarda gli aiuti di stato: ora il governo rivendica il diritto di stabilire quali aiuti dare a Belfast. Anche su quali controlli fare al confine (che si sposta così di fatto tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna) ora dice di voler decidere in autonomia.
Crisi senza precedenti
Magari la mossa di Johnson, che ora dice di voler rivedere l’accordo di uscita, è un bluff per spuntare qualcosa in più dalle trattative, una «provocazione» come dice Barnier, ma ha effetti gravi. L’Ue valuta azioni legali e ammonisce: «Pacta sunt servanda», i patti si rispettano, come ha detto la presidente della commissione Ursula von der Leyen. Il presidente americano Donald Trump spinge per una “hard Brexit” che gli dà vantaggi commerciali, ma i dem, come il candidato presidenziale Joe Biden di origini irlandesi, dicono: Washington non farà patti di libero scambio con chi non rispetta gli accordi e mette a rischio la pace tra le due Irlande.
Il pasticcio per Johnson è pure in casa propria: arrivano dimissioni a raffica, con Jonathan Jones, capo del dipartimento legale del governo, o l’ex ministro conservatore Richard Keen, avvocato generale per la Scozia. Proprio fra i tories è stata faticosamente sedata la “ribellione” a Westminster: BoJo è riuscito a farla rientrare garantendo ai sediziosi che il parlamento potrà votare in quali casi calpestare l’accordo Ue. Ma l’ipotesi di violarlo rimane, quindi pure la crisi. Il freno potrebbe venire dalla camera dei lord, di cui fanno parte giudici e avvocati, anche se non capita da tempo che i nominati blocchino una legge approvata dagli eletti. Poi c’è la regina: senza il suo sì tutto salta; in questo caso i precedenti risalgono a tre secoli fa. Sarebbe una storia inedita, ma va messa in conto: giusto un anno fa, Johnson teneva chiuso il parlamento per rallentare il dibattito su Brexit. Anche in quel caso, chi l’avrebbe mai detto.
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