Pechino punta a una crescita economica del 5 per cento nel 2024, ma il premier Li Qiang è costretto ad ammettere che fra calo della domanda dall’estero, turbolenze geopolitiche e difficoltà domestiche, il contesto è «incredibilmente complicato»
È un contesto «incredibilmente complicato» quello in cui la la Repubblica popolare cinese, nel settantacinquesimo anniversario della fondazione, proverà a centrare gli obiettivi di sviluppo fissati per il 2024.
Non ha nascosto le difficoltà Li Qiang, il premier che ieri ha presentato il suo primo “Rapporto sul lavoro del governo” all’Assemblea nazionale del popolo (Anp).
L’inaugurazione, l’anno scorso, delle rotte commerciali servite dal Comac C919 – il rivale made in China del Boeing 737 e dell’Airbus A-320 – e il 60 per cento della produzione globale di auto ormai stanziata in Cina testimoniano i successi della linea di Xi Jinping, quello sviluppo di “alta qualità”, che punta a emancipare il paese dall’export di beni a basso valore aggiunto e dagli iper-investimenti.
Ma – ha ammesso Li – «un calo della domanda dall’estero ha coinciso con la scarsità di quella interna. E i potenziali pericoli nel settore immobiliare, nel debito delle amministrazioni locali e nelle istituzioni finanziarie di piccole e medie dimensioni sono stati acuti».
Mentre, a livello globale, «la ripresa economica è stata lenta. I conflitti geopolitici si sono acutizzati, il protezionismo e l’unilateralismo sono aumentati e l’ambiente esterno ha esercitato un impatto più negativo sullo sviluppo della Cina».
Tutti problemi irrisolti che il paese - che mira a raddoppiare il Pil entro il 2035 rispetto al 2020 (a tal fine serve una crescita media del 4,7 per cento in 15 anni) - si è portato dietro nel passaggio dall’anno del coniglio a quello del drago.
Poi Li ha sciorinato le previsioni per il 2024: crescita «intorno al 5 per cento», disoccupazione urbana al 5,5 per cento e oltre 12 milioni di nuovi posti di lavoro, inflazione al 3 per cento o giù di lì.
Aumenta il debito
Verranno emessi buoni del tesoro a lunga scadenza per sostenere l’hi-tech e altri settori strategici. Si parte subito con una prima tranche da 1.000 miliardi di yuan (139 miliardi di dollari). Il governo scommetterà in particolare sulle industrie dei veicoli intelligenti ed elettrici, della produzione di energia dall’idrogeno, dei nuovi materiali e della farmaceutica.
La spesa militare crescerà del 7,2 per cento (ancora una volta più del Pil), toccando, ufficialmente 1.670 miliardi di yuan (232 miliardi di dollari): poco più di un quarto di quella Usa certo, ma produrre armamenti in Cina costa molto meno. I problemi dell’economia inducono inoltre a procedere «con prudenza» sulla strada della neutralità carbonica.
Bond per altri 3.900 miliardi di yuan (541 miliardi di dollari) serviranno a finanziare i governi locali e le infrastrutture e saranno accompagnati da una politica monetaria più accomodante. Ma non è lo stimolo che reclamano i mercati.
Come reagiranno dunque imprese e investitori? Nel primo anno post-Covid si sono mostrati decisamente tiepidi, tanto che ci si è inventati perfino una “Legge per la promozione dell’economia privata”, che sarà discussa nei prossimi giorni dall’Anp.
Li ha assicurato «politiche stabili, trasparenti e prevedibili per le imprese» e promesso di porre l’accento sulla «comunicazione con il mercato» nel tentativo di riportare un po’ di ottimismo nel capitale straniero, che l’anno scorso ha investito in Cina solo 33 miliardi di dollari, mai così pochi dal 1993. Una fuga di capitali che secondo Chen Wenling risponderebbe a una strategia calcolata.
«Gli attacchi contro la Cina e le vendite allo scoperto si sono svolti in tandem - ha sostenuto il capo economista del China Center for International Economic Exchanges in un’intervista al portale Guancha -: quella in corso è una guerra di narrazioni e una guerra finanziaria».
Primo ministro senza parole
Li Qiang ha annunciato anche un imprecisato allentamento delle restrizioni sugli investimenti esteri nelle telecomunicazioni e nei servizi sanitari. Nel primo caso vige il più rigido controllo e dunque sarà forse possibile l’ingresso degli stranieri con quote di ultra-minoranza negli ultra-profittevoli monopoli statali. Discorso diverso per il settore sanitario, dove potrebbero aprirsi spazi di cooperazione più significativi.
Il premier ha aggiunto che, per quanto riguarda la manifattura, sarà «abolita completamente» la soglia per gli investitori esteri, che dunque - pare di capire - non sarebbero più soggetti all’obbligo di joint-venture con società locali.
Il numero due del Pcc, quando era segretario di partito a Shanghai, ha saputo portare nella megalopoli sul delta del Fiume azzurro Tesla e altri colossi multinazionali. Ma ora tra il dire e il fare c’è di mezzo il contesto internazionale «incredibilmente complicato».
Alla chiusura di questa Anp (una delle più brevi di sempre, si chiuderà lunedì prossimo), Li non potrà rispondere alle domande dei giornalisti. La tradizionale conferenza stampa del premier, responsabile della politica economica - una consuetudine dal 1993 -, è stata infatti abolita.
Nel 2020, il suo predecessore Li Keqiang l’aveva utilizzata per rivelare che ci sono ancora circa 600 milioni di cinesi «il cui reddito mensile è di appena 1.000 yuan (circa 150 dollari, ndr), che non basta nemmeno per affittare una stanza in una città di medie dimensioni».
Prima ancora - durante quella che la stessa Anp aveva definito «una finestra importante per osservare l’apertura e la trasparenza della Cina» - un altro capo del governo, Wen Jiabao, aveva discusso dell’immolazione di monaci tibetani e di riforme politiche.
Poi però le istituzioni statali sono state depotenziate e il Consiglio di stato (il governo) presieduto da Li è stato marginalizzato - a tutto vantaggio dei poteri del segretario generale del partito - attraverso l’istituzione di una serie di comitati presieduti da Xi che hanno più potere dei rispettivi dicasteri, la riduzione del numero delle sedute mensili del consiglio dei ministri e la scelta per il ruolo di premier dello stesso Li, uomo di provata fiducia del numero uno del Pcc, come del resto tutto il comitato permanente dell’ufficio politico partorito dal XX congresso.
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