Il premier israeliano ha trovato il motivo per interrompere una tregua che aveva subito e non voleva prolungare. Hezbollah rivendica un attacco contro soldati d’Israele. A Dubai storico incontro tra Herzog e l’emiro del Qatar
La guerra continua. Israele riprende l’offensiva contro Hamas, accusata di violare l’accordo sulla tregua. Che il motivo siano i razzi (ieri, dopo la ripresa delle ostilità, anche Hezbollah ha rivendicato un’azione contro soldati israeliani), l’attacco di Gerusalemme – “operazione di martirio”, secondo il linguaggio di Hamas, che rimanda al modus operandi del passato – le difficoltà incontrate nello scambio ostaggi-prigionieri dalla stessa organizzazione islamista, preda della frantumata gestione dei catturati del 7 ottobre, Benjamin Netanyahu non intendeva prolungare oltre una tregua subita, consapevole che, di proroga in proroga, la pressione internazionale per cristallizzare le ostilità sarebbe cresciuta e lo scenario politico interno gli sarebbe deflagrato tra le mani. Al primo, serio, intoppo, ha colto la palla al balzo.
Del resto, l’insofferenza della destra estrema nazionalreligiosa e post-kahanista, che minaccia di togliere il sostegno all’esecutivo se la guerra non andasse avanti, non è un bluff. Non è un caso che, per continuare ad assicurarsene l’appoggio, il premier israeliano abbia promesso a Bezalel Smotrich, il leader del Mafdal, il partito nazionalreligioso, ingenti finanziamenti per le colonie e le scuole religiose. La rappresentanza del movimento dei coloni è consapevole che l’avventura di Netanyahu è agli sgoccioli: tanto vale, allora, massimizzare la rendita e, al contempo, arrivare alle elezioni che seguiranno la fine delle ostilità raccogliendo consenso non solo nel tradizionale bacino di “Giudea e Samaria”, ma anche nel vasto pezzo di elettorato ultranazionalista del Likud che respinge ogni ipotesi di compromesso territoriale con i palestinesi.
Obiettivo Cisgiordania
Per la destra estrema la guerra a Gaza non è che la prova generale della decisiva battaglia per la Cisgiordania, obiettivo strategico del movimento, che punta, pur sul lungo periodo, all’incorporazione di quel territorio nei confini di uno stato che dovrebbe estendersi sino ai confini dell’antica Eretz Israel biblica, assai più vasti di quelli internazionalmente riconosciuti del 1967.
Bibi sa che l’anima nera del suo schieramento, che nel frattempo sta armando i coloni, formalmente in funzione di autodifesa, in realtà come punta di lancia di una falange destinata a penetrare in profondità nel campo nemico, potrebbe togliere da un momento all’altro l’appoggio all’esecutivo se le “spade di ferro” che danno il nome all’operazione israeliana a Gaza venissero rinfoderate. Ma Netanyahu non intende uscire di scena oggi. E se proprio dovrà farlo – la speranza è che qualcosa di inaspettato, o abilmente costruito, eviti all’ultimo istante quell’esorcizzato momento – vuole farlo a modo suo.
Dopo aver tentato l’impossibile per lavare l’onta del “sabato nero”, tanto più indelebile dopo le conferme del New York Times sulla conoscenza dei piani di Hamas da parte dell’Agaf HaModi’in, l’Aman, il servizio di intelligence militare.
Difficile pensare che, pur giudicando irrealistica la realizzazione di un’operazione come quella denominata “Mura di Gerico”, le gerarchie della struttura d’informazione non avessero allertato i vertici politici.
I rapporti con gli Usa
La guerra è alimentata anche dalla volontà di Bibi di essere ricordato non come il responsabile della catastrofe della sicurezza israeliana ma come l’uomo che ha distrutto Hamas e neutralizzato Gaza come fonte di minaccia. Obiettivo che Netanyahu, la cui vera forza è nel non aver più nulla da perdere, persegue con ogni mezzo. Anche portando a tensione estrema i rapporti, già assai tesi, con gli Stati Uniti.
Al di là della stabilità dell’alleanza, certo non in discussione, la Casa Bianca ritiene disastrosa, per gli effetti prodotti nella regione e le alleanze dell’America nel mondo islamico, la condotta del premier israeliano.
Di fronte a una guerra che coinvolge in maniera così pesante la popolazione civile palestinese e promette di essere ancora più dura nell’estensione al sud della Striscia, anche le soluzioni per il dopo si complicano. E proprio questo è il punto di maggiore contrasto tra Joe Biden e Netanyahu: il premier israeliano continua a pensare a un futuro fondato sull’ipotesi Gaza senza Hamas, Palestina senza stato. Posizione ribadita anche in questi giorni alla base del Likud, esplicitando la convinzione che solo lui può impedire il ritorno di Gaza all’Anp.
Washington, invece, intende riproporre la proposta dei “due stati”. Prospettiva che, però, impone di sciogliere, gordianamente, il nodo del territorio del futuribile stato palestinese, che la destra estrema israeliana vorrebbe pari a zero per motivi religiosi e quella nazionalista respinge per motivi legati alla sicurezza strategica di Israele.
Ancora una volta, dunque, gli interessi di Bibi e dei nazionalmessianici coincidono, trasformando più che mai la guerra in continuazione della politica con altri mezzi. Un nodo che solo gli Stati Uniti potrebbero tagliare. Magari di concerto con il loro interlocutore privilegiato, il centrista Benny Gantz, entrato nell’esecutivo dopo il 7 ottobre e, secondo i sondaggi, favorito alle prossime elezioni.
Se con le sue scelte Netanyahu dovesse ulteriormente mettere a rischio gli interessi americani, non è escluso che sia Washington a spingere per accelerare la transizione in concorso con Gantz. Anche se sulle possibili opzioni di Biden incide non poco la corsa alla Casa Bianca: non può perdere il sostegno dell’elettorato musulmano, concentrato negli swing state, decisivi per la vittoria del novembre 2024, ma nemmeno rischiare il consenso dell’influente elettorato di origine ebraica. Situazione che fa delle presidenziali un pericoloso gioco a somma zero.
Il destino di Hamas
Quanto ad Hamas, si dice ancora interessata alla tregua, e riversa su Israele la responsabilità della ripresa delle ostilità e sugli Stati Uniti quella di non aver pressato a sufficienza l’alleato. In ogni caso, Yahya Sinwar non crede vi sia alcuna possibilità di replicare quanto accadde a Beirut nel 1982, quando l’Olp di Arafat fu fatto evacuare a Tunisi sotto protezione internazionale. Sa che, a meno che non venga clandestinamente esfiltrato, la sua sorte, così come quella di buona parte della leadership di Hamas, a Gaza come altrove, è segnata.
L’evacuazione dell’organizzazione dalla Striscia, opzione non secondaria di Israele, riguarderebbe semmai i “manovali” sopravvissuti all’incandescente finale di partita in corso, non certo i leader, destinati a diventare bersaglio di una riedizione dell’operazione “Collera di Dio”, l’eliminazione mirata da parte del Mossad di quanti erano coinvolti nel massacro di Monaco 1972. Uno scontro i cui, per motivi diversi i leader non hanno via d’uscita, politica e esistenziale, non può che volgere al peggio. Anche se Usa e Qatar non rinunciano a esplorare il terreno di una nuova tregua umanitaria: come rivela lo storico incontro negli Emirati tra l’emiro Al-Thani e il presidente israeliano Herzog.
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