La vicepresidente eletta è perfettamente in linea con la vecchia retroguardia del partito. Nella sua carriera di procuratrice ha difeso gli abusi dei poliziotti ed è fuori fase rispetto alla sensibilità delle piazze arrabbiate, delle statue abbattute e dell’abolizione delle forze dell’ordine
Kamala Harris è la prima donna eletta vicepresidente: il suo risultato è storico e Joe Biden si trova a proprio agio con lei. Fin dalla candidatura, finito il peana a testate unificate per la senatrice di origini giamaicane e afroamericane, sono iniziati però i mugugni in sordina dei progressisti che non hanno dimenticato la sua condotta quand’era procuratore generale della California e prima a San Francisco, dove ha difeso i metodi brutali della polizia e si è rifiutata di riaprire casi investigativi su persone disarmate uccise dagli agenti.
Oggi Harris parla di «reimmaginare il modo in cui gestiamo la pubblica sicurezza», ma nel 2009 scriveva nel libro Smart on Crime: «Se facessimo un voto per alzata di mano su chi vorrebbe più agenti per le strade, la mia mano si alzerebbe». Nel 2014, prima dell’omicidio di Michael Brown a Ferguson, l’episodio da cui è nato Black Lives Matter, gli attivisti per i diritti civili di Oakland distribuivano volantini con la scritta: «Chiedete al procuratore generale Kamala Harris di indagare i poliziotti assassini! È il suo lavoro!»
Negli anni in cui è stata procuratrice a San Francisco i casi di violenze da parte della polizia sono stati di molto superiori a quelli di altre città californiane di dimensioni simili, ma le inchieste sulla condotta degli agenti sono state molto meno che altrove. L’inclinazione verso la copertura delle forze dell’ordine ha cementato l’immagine della figura d’establishment, fuori fase rispetto alla sensibilità espressa oggi dalle piazze che chiedono giustizia, dalle statue abbattute, dagli ideali dell’abolition democracy di Angela Davis, dove la fine della schiavitù non è che il primo passo verso una più radicale abolizione delle strutture che alimentano il razzismo che innerva la società intera.
La carriera stessa di Harris è in tensione con la tesi, resa celebre da Michelle Alexander nel libro The New Jim Crow, secondo cui la nuova segregazione si esprime attraverso quel sistema di giustizia penale che la nuova vicepresidente si è prodigata per difendere. L’ultimo libro di Harris, The Truths We Hold, riprende il titolo dalla Dichiarazione d’indipendenza, il cui principale autore, Thomas Jefferson, è bersagliato in effigie dai manifestanti che vorrebbero sradicare la vecchia slavocracy americana per sostituirla con una nuova narrazione purificata all’insegna della giustizia sociale.
Nella storia presentata dai progressisti, rigidamente divisa in due sponde, Harris siede dalla parte delle forze dell’ordine e dei Padri fondatori, cosa che la rende temporaneamente accettabile soltanto in nome della sconfitta dell’avversario. Poi i democratici torneranno tranquillamente a litigare.
© Riproduzione riservata