L’agenzia per il cyberspazio dice di voler regolamentare l’uso di tecnologie per il riconoscimento facciale. Facendo leva sulle norme occidentali, Pechino vuole in realtà controllare il proliferare della sorveglianza privata
All’inizio di agosto l’Agenzia per il cyberspazio cinese ha reso pubblica la volontà di regolamentare l’uso di tecnologie di riconoscimento facciale nel paese. Ventiquattro articoli, aperti anche ai commenti da parte dei cittadini, che per visione e ampiezza di tutela si avvicinano al regolamento europeo Gpdr.
Quest’ultimo è stato introdotto per garantire un giusto trattamento dei dati dei cittadini europei da parte di aziende e soggetti pubblici che operano nel continente e, indirettamente, riguarda anche i dati biometrici (come il volto, considerati personali). Ancora in fase di scrittura definitiva è poi il regolamento sull’AI (AI Act), che a metà 2024 andrà a definire sviluppo, possibilità di utilizzo dell’intelligenza artificiale nonché meccanismi di difesa in mano ai cittadini nei confronti di tecnologie di sorveglianza.
La proposta di legge del partito comunista cinese è, a tratti, un insieme delle due normative: cita infatti i concetti di moralità, consenso esplicito e responsabilità sociale che chiunque utilizzi questa tecnologia sarebbe obbligato a seguire per proteggere le informazioni personali dei cittadini coinvolti.
Fa riferimento anche alla proporzionalità nell’uso del riconoscimento facciale, uno dei principi cardine che ritroviamo anche nel Gdpr e col quale il legislatore cinese chiarisce come la tecnologia sia invasiva e possa essere sostituita spesso con altre modalità di identificazione; di luoghi in cui la tecnologia biometrica è vietata, come bagni, spogliatoi o camere d’albergo; di tempo massimo di conservazione delle immagini dei volti ritratti. Secondo la bozza ad esempio, i volti dei minori di 14 anni non possono essere scannerizzati in mancanza del consenso di entrambi i genitori.
A stridere rispetto al comportamento del partito comunista cinese contro le minoranze etniche presenti nel paese, soprattutto per via della discriminazione accertata contro gli uiguri proprio attraverso sistemi di riconoscimento facciale, è l’articolo 11: «Nessuna organizzazione o individuo può avvalersi di riconoscimento facciale per definire l’etnia, le convinzioni personali e politiche, stato di salute e classe sociale di una persona».
Intolleranza
Similitudini con l’Europa, quelle contenute nella bozza di regolamentazione, che però non sono sufficienti a rendere la Cina più vicina.
La Repubblica popolare continua a essere tutt’altro mondo. Come sottolineato in un’inchiesta pubblicata lo scorso anno dal New York Times in collaborazione con il magazine digitale ChinaFile, il numero di videocamere presenti nel paese (e dotate anche di riconoscimento facciale) arriverebbe a mezzo milione.
La più vasta infrastruttura di sorveglianza al mondo. Occhi elettronici che quotidianamente aiutano Pechino a massimizzare lo sforzo per mantenere lo stato autoritario, conoscendo l’identità di ogni persona che risiede e attraversa il territorio, le sue attività e le sue connessioni sociali.
Da tempo però la popolazione è intollerante alle politiche di sorveglianza imposte. Non solo perché l’identificazione biometrica è affar di stato e lambisce ampi settori della società cinese, ma anche perché c’è un secondo attore in campo: i privati.
«Questa bozza è esemplificativa del modo in cui il partito gestisce le questioni tecnologiche nel paese. Una regolamentazione che nasce da una duplice esigenza da parte del Partito comunista cinese: da un lato dimostrare ai cittadini di aver compreso la protesta, dall’altro invece di essere attento al proliferare di sistemi di sorveglianza da parte di privati. Un fatto che mette in dubbio il primo vero controllore: il partito», dice Simone Pieranni, giornalista esperto di Cina.
Nel dicembre 2019 una legge ha introdotto l’obbligatorietà di sottoporsi a riconoscimento biometrico ogniqualvolta un cittadino cinese voglia comprare uno smartphone, o aprire un contratto con un operatore telefonico.
L’ennesimo meccanismo del motore ben oliato della sorveglianza cinese. Nello stesso anno un professore della Zhejiang Sci-tech university ha per primo denunciato un parco safari di Hangzhou, una città di circa 11 milioni di abitanti, per aver scannerizzato il suo volto all’entrata e raccolto suoi dati personali senza previo consenso. Causa legale che poi ha vinto.
«Su Internet hanno iniziato a comparire una serie di siti in cui cittadini e consumatori denunciano i luoghi in cui i sistemi di videosorveglianza con riconoscimento facciale a bordo non sono adeguatamente segnalati», continua Pieranni, «così come scandali dovuti alla proliferazione di immagini estratte da girati di videocamere e poi caricati su Internet».
Agli onori della cronaca è salito anche un altro caso, sempre nello stesso anno, che ha visto protagonisti gli studenti di un’università a Nanjing, nella provincia di Jiangsu.
Un software di riconoscimento facciale è stato introdotto per identificare gli studenti ai cancelli d’entrata così come prima dell’entrata della biblioteca, dei laboratori scientifici e di alcune classi. Una prova, ha dichiarato al quotidiano anglofono South China Morning Post il rettore dell’università Xu Jianzhen, «per rilevare non solo la presenza degli studenti ma anche il loro apprendimento, vedendo se ascoltano le lezioni, quante volte alzano la testa e se giocano con il telefono o si addormentano».
Un altro caso del novembre 2021 è stato invece riportato dal quotidiano inglese Guardian su segnalazione dell’agenzia stampa Reuters. Una delle più grandi e popolose province cinesi, quella di Henan, ha commissionato un sistema di sorveglianza prodotto dalla compagnia Neusoft per tracciare studenti internazionali e giornalisti. Questi ultimi sarebbero considerati “persone sospette”, da dividere in tre categorie (rossa, gialla e verde, sulla base della pericolosità) e quindi sottoposte allo sguardo impalpabile di 3.000 videocamere connesse a vari database nazionali e regionali.
Nel momento in cui un giornalista dovesse registrarsi in un hotel della provincia o comprare un biglietto di un mezzo di trasporto, un alert è inviato alle forze dell’ordine. Uno strumento, quello della videosorveglianza, che è il braccio armato del partito comunista cinese per estendere il controllo anche sui media internazionali.
Sicurezza nazionale
«Così come negli Usa e in Europa, anche in Cina il concetto di sicurezza nazionale - molto discrezionale - sta lambendo sempre più ampi settori. Spesso le norme cinesi non sono molto stringenti proprio per lasciare poi al partito più poteri pratici, e in questo caso sarà curioso vedere in che modo questa norma convivrà con la legge anti spionaggio emanata alcuni mesi fa», continua Pieranni.
Un termine, sicurezza nazionale, che non ha una definizione univoca e che rischia di racchiudere in sé ben oltre ciò che servirebbe allo stato, non solo cinese, per preservare la propria sicurezza.
Una questione che alcuni parlamentari europei hanno sollevato anche nel caso di altre tecnologie di sorveglianza utilizzate dagli stati europei negli ultimi anni proprio a questi fini, come gli spyware.
Il sistema di riconoscimento facciale, che attraverso un template biometrico è in grado di dare un nome e un cognome al volto ritratto in una fotografia o presente nel frame di un video di sicurezza, esiste ed è utilizzato anche in Italia, dal 2017.
Si chiama Sistema automatico riconoscimento immagini (Sari). È in forza alla polizia di stato, che lo utilizza per identificare persone pregiudicate e quindi già foto segnalate. Le loro fotografie sono all’interno di un database che rende possibile il funzionamento di Sari.
Le differenze tra Italia e Cina in merito all’uso di sistemi di riconoscimento facciale comunque esistono: nel nostro paese non c’è una infrastruttura di sorveglianza lontanamente simile a quella creata dal Partito comunista cinese, anche se le videocamere non mancano; i cittadini italiani non sono soggetti all’identificazione biometrica obbligatoria per servizi di welfare o per svolgere azioni quotidiane, e questo restringe di molto la possibilità di essere inseriti all’interno di un database che poi è utilizzato dal sistema di riconoscimento facciale.
In Italia c’è però un vuoto normativo. Nessuna legge specifica definisce quali scopi possono perseguire e a quali limitazioni sono soggette le forze dell’ordine (o altri attori che hanno potere di sicurezza pubblica) quando utilizzano questa apparentemente neutrale tecnologia.
Una moratoria introdotta nel 2021 non permette ai comuni di installare videocamere con a bordo riconoscimento facciale per scopi securitari fino al 2025, ma per quanto riguarda la Polizia di stato la situazione è appunto diversa.
Alle forze dell’ordine è garantita la possibilità di avvalersi di riconoscimento facciale nell’attività di indagine così come avviene per le intercettazioni, con la differenza che queste ultime ricadono sotto una normativa che definisce anche l’utilizzo di captatori (in termine tecnico trojan) di Stato.
A processo, per ora, non è mai stata una prova schiacciante quella fornita da Sari. Il ministero dell’Interno non fornisce informazioni esplicite sulle persone che risultano foto segnalate e inserite all’interno del database in cui Sari cerca una corrispondenza, né tantomeno la politica di data retention (ovvero il tempo massimo in cui volto e dati personali sono in esso mantenuti). Da alcune stime del 2022 fornite dal dipartimento di Pubblica sicurezza in risposta a una richiesta di accesso civico generalizzato il database che permette il funzionamento di Sari comprende 18.460.372 cartellini fotosegnaletici, che contengono volto e dati anagrafici e personali di un individuo (di cui 3.289.196 di persone italiane).
Come visto, anche in Cina la sicurezza nazionale è il perno attorno al quale girano le possibili applicazioni di tecnologie biometriche.
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