Le proteste contro il regime scatenate dalla convergenza fra crisi economica e sanitaria sono forse le più dure dai tempi della rivoluzione del 1959. I prossimi giorni chiariranno se si tratta dell’ennesimo falso allarme nell’inamovibile regime fondato da Fidel Castro, o qualcosa di davvero nuovo che avrà conseguenze durature
- Il regime pare prendere sul serio la rivolta iniziata domenica nella cittadina di San Antonio de los Baños. Il presidente Miguel Dìaz-Canel ha chiamato i «veri rivoluzionari» e i «patrioti» a scendere in piazza per contrastare la protesta.
- In alcune città testimoni hanno parlato di forze dell’ordine “paralizzate” davanti alla sorpresa, mentre in altre hanno reagito con durezza. All’Avana le proteste sono durate per cinque ore a partire delle tre del pomeriggio, con un tentativo di alcuni manifestanti di arrivare nella Plaza de la Revoluciòn, il luogo più sacro del castrismo.
- La pandemia ha azzerato il turismo straniero, la principale fonte di valuta pregiata per l’isola. Lo scorso anno il Pil ha subito una contrazione del 10,9 per cento, e finora quest’anno ha perso un ulteriore 2 per cento.
Immagini di proteste come non se ne vedevano da tempo, dalle strade e le piazze di Cuba. Dalla crisi umanitaria degli anni Novanta, post collasso Unione Sovietica, o addirittura mai viste dalla Revoluciòn del 1959.
I prossimi giorni chiariranno se si tratta dell’ennesimo falso allarme nell’inamovibile regime fondato da Fidel Castro, o qualcosa di davvero nuovo che avrà conseguenze durature. I cubani sono stanchi – ristrettezze economiche e Covid picchiano duro – e tutte le illusioni di cambiamento, per quanto lento, stanno svanendo. Non sta funzionando nulla: né le aperture graduali all’economia di mercato e l’idea di trasformare il socialismo da dentro, né i piccoli spazi aperti alla libertà di opinione, soprattutto attraverso la rete.
Anche se l’ultimo Castro (Raul) pensava a una evoluzione alla cinese, sembra di rivedere invece i fallimenti di Gorbaciov con glasnost e perestroika, e le inevitabili conseguenze di riforme impossibili da far funzionare.
Il regime pare prendere sul serio la rivolta, e questo è un segnale. Il presidente Miguel Dìaz-Canel ha chiamato i «veri rivoluzionari» e i «patrioti» a scendere in piazza per contrastare la protesta.
«Nelle strade a combattere!», è stata la sua espressione, una minaccia di guerra civile mai sentita nella Cuba comunista. Altro segnale è la dichiarazione del ministero degli Esteri russo, il quale considera «inaccettabile che vi siano interferenze esterne negli affari interni di uno stato sovrano, o azioni distruttive che incoraggiano a destabilizzazione». Linguaggio da Guerra fredda, quella del secolo scorso però, che da tempo non si sentivano sotto il sole dei Caraibi.
La marcia a San Antonio
Ecco cosa è successo finora. Tutto è cominciato domenica mattina a San Antonio de los Baños, una cittadina dell’interno dell’isola a 50 chilometri della capitale L’Avana. Migliaia di persone hanno iniziato a sfilare gridando slogan come “Libertà!”, “Abbasso il comunismo” e chiedendo cibo e vaccini.
Per quasi un’ora la marcia è stata ripresa dai cellulari e trasmessa su Facebook, il che ha agito come detonatore per le altre iniziative, fino a quando il segnale è saltato per iniziativa del governo. Nel primo pomeriggio di domenica le scene di protesta si sono ripetute in altre città, fino ad arrivare nei centri storici dell’Avana e di Santiago, dove naturalmente la ripercussione è stata assai maggiore.
Dìaz-Canel ha tentato di fermare la reazione a catena recandosi personalmente a San Antonio, dove ha pronunciato le consuete parole sugli effetti nefasti delle sanzioni Usa, colpevoli di ogni male a Cuba, ma ormai era troppo tardi.
In alcune città testimoni hanno parlato di forze dell’ordine “paralizzate” davanti alla sorpresa, mentre in altre hanno reagito con durezza. All’Avana le proteste sono durate per cinque ore a partire delle tre del pomeriggio, con un tentativo di alcuni manifestanti di arrivare nella Plaza de la Revoluciòn, il luogo più sacro del castrismo.
Secondo la Reuters sono state arrestati almeno due dozzine di manifestanti e le forze dell’ordine hanno usato manganelli e spray urticante. Una vettura della polizia vuota è stata presa a sassate e rovesciata.
Lìattuale crisi economica è una combinazione di fattori, tra i quali ci sono certamente anche le sanzioni rimesse in piedi dall’amministrazione Trump, dopo il disgelo degli anni di Barack Obama, e le storiche inefficienze di una economia ancora in gran parte centralizzata.
Poi la pandemia ha azzerato il turismo straniero, la principale fonte di valuta pregiata per l’isola. Lo scorso anno il Pil ha subito una contrazione del 10,9 per cento, e finora quest’anno ha perso un ulteriore 2 per cento. Quel che succede in questi casi a Cuba è notorio.
Si fermano i mezzi di trasporto per mancanza di benzina, i blackout elettrici sono continui, non arrivano derrate alimentari nei negozi in moneta locale, esplodono i prezzi nel mercato nero.
Riforma monetaria
Il regime ha scelto anche il peggior momento per una riforma monetaria, quella scattata il 1° gennaio, che avrebbe dovuto eliminare gradualmente il gap di chi vive sul peso di scarsissimo valore e chi invece ha in tasca i dollari. La crisi ha azzerato finora qualsiasi effetto desiderato.
E infine la pandemia. Lo scorso anno, grazie anche all’isolamento, Cuba sembrava poter gestire bene la situazione. La vaccinazione di massa procede, con 1,7 su 11 milioni di abitanti totalmente immunizzati e il doppio che hanno ricevuto almeno la prima dose.
Poi l’arrivo della variante Delta ha complicato le cose, e una delle notizie che hanno fatto da detonatore alle proteste di domenica è stato il record di quasi 7mila casi in un giorno e 47 morti. In alcune province gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo pieni.
Le autorità sanitarie hanno approvato in tutta fretta in questi giorni l’uso per emergenze del vaccino Abdala, sviluppato sull'isola. È il secondo prodotto autoctono, e il governo assicura che è all’altezza da quelli sviluppati dalla grandi case farmaceutiche.
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