La politica estera femminista è un concetto di cui si discute dall’inizio del Novecento. Il primo paese a implementarla è stata la Svezia nel 2014, ma poi ha fatto un passo indietro. Altri paesi hanno preso il testimone
Anche la politica estera dev’essere cosa da donne. Di cape, per essere precisi. Il termine “Chefin” che la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha utilizzato per descrivere il futuro che vorrebbe vedere per il suo dicastero non ha una traduzione che rende altrettanto, e, per adesso, non c’è corrispondente nemmeno per la sua strategia politica.
Baerbock ha presentato la scorsa settimana il suo progetto di politica estera femminista. La ministra verde difende il progetto fin dalla campagna elettorale del 2021, quando era candidata alla cancelleria. Durante le trattative di coalizione ha insistito per far inserire il principio elaborato a inizio Novecento nel contratto di coalizione, il primo marzo ha presentato un centinaio di pagine di linee guida per cambiare in maniera duratura la struttura del suo dicastero e – spera – dell’approccio globale alla politica estera.
Sono più di cent’anni che si discute di un approccio nuovo alla geopolitica. Uno dei punti di riferimento storici è il congresso internazionale delle donne dell’Aia del 1915. Fu in quell’occasione che si iniziarono a porre le basi di una nuovo metodo di lavoro per la politica internazionale.
A differenza della politica estera tradizionale, quella femminista si propone di negoziare strategie per il mantenimento della pace includendo le prospettive di tutte le parti interessate. Non si tratta dunque di una politica che si limita a tutelare gli interessi delle donne, ma che punta a creare un equilibrio internazionale che muova dai diritti umani e preveda punizioni gravi per chi non li rispetta invece che farlo derivare dall’ampliamento degli arsenali di armi e dalla minaccia reciproca.
I contenuti
Studi internazionali dimostrano che gli accordi di pace negoziati anche da donne hanno più probabilità di durare a lungo. Una delle specificità dell’approccio femminista è quello di cercare soluzioni a lungo termine, per superare l’approccio ad hoc alle crisi internazionali che viene impiegato oggi.
I punti chiave della politica estera femminista sono diritti, risorse e rappresentanza delle donne: la declinazione specifica può variare a seconda del paese. Nel programma di Baerbock, per esempio, si pongono come obiettivi generali il rispetto dei diritti di donne e bambine, la presenza femminile in ruoli di rilievo dell’amministrazione pubblica, soprattutto nel ministero degli Esteri, e le stesse condizioni di partenza per tutte e tutti in termini di accesso all’istruzione.
Il primo piano concreto per l’implementazione dei principi della politica estera femminista risale al governo svedese del 2014: accanto alla carica innovativa, la strategia è stata però anche criticata per il suo approccio binario, che non teneva, secondo i detrattori, in adeguata considerazione le persone non binarie. Il progetto è però fallito con il cambio di governo. Oggi l’esecutivo di centrodestra continua a considerare le pari opportunità come «priorità», ha spiegato il nuovo ministro degli Esteri Tobi Billström, ma il capo della diplomazia svedese ha voluto cancellare l’aggettivo “femminista” «perché le etichette tendono a nascondere il contenuto».
Il programma da ottanta pagine presentato in Germania si pone come obiettivo quello di mettere in discussione le strutture di potere della politica estera con l’approccio tipico del femminismo, cercando di aprire nuove prospettive. Il cambiamento riguarda anche anche di metodo di lavoro del ministero. Baerbock vuole introdurre la figura dell’ambasciatore per la politica estera femminista, una persona che si occupi del “mainstreaming” del concetto, quindi della diffusione del nuovo approccio. La ministra vuole anche che i diplomatici tedeschi aumentino la loro competenza di genere e che sviluppino, attraverso corsi di formazione specifici, un “riflesso femminista” da applicare nel loro lavoro quotidiano.
Per dimostrare che il piano non è solo fatto di parole, Baerbock ha anche previsto un sistema di finanziamento collegato al potenziale femminista dei progetti da sovvenzionare: entro il 2025, l’85 per cento dei fondi a disposizione andranno a progetti che incrementino la parità tra uomo e donna. Al ministero dello Sviluppo economico, che partecipa al progetto, saranno addirittura il 93 per cento dei soldi disponibili.
Le critiche
La speranza di Baerbock e Svenja Schulze, la ministra dello Sviluppo economico, è che il loro progetto non faccia la fine di quello svedese. È per questo che il piano insiste così tanto sul valore dell’educazione dei diplomatici: una volta implementato un cambiamento culturale, se anche dovessero cambiare gli equilibri politici, sarà più difficile tornare indietro.
Anche perché il piano appena presentato ha già numerosi avversari. Tra i più ostili c’è leader dell’opposizione, Friedrich Merz, che già l’anno scorso ironizzava sul fatto che per lui «si può anche fare politica estera femminista, ma non con i soldi destinati alla Bundeswehr». Una concessione a cui Baerbock aveva replicato che la sua strategia fosse necessaria anche solo «per essere all’altezza dei tempi». L’estrema destra di AfD ha ridotto il piano a un’«etichetta», ma perfino un alleato di Baerbock, il liberale Wolfgang Kubicki, ha sentenziato che il progetto è utile solo alla «soddisfazione emotiva delle ministre che lo promuovono». Il suo collega di partito, il ministro delle Finanze Christian Lindner, nella sua bozza di bilancio per il 2024 ha anche proceduto a tagliare i fondi a disposizione per i due ministeri promotori del progetto di 4 miliardi di euro.
Mentre sul piano politico molte critiche vertono sulla veste formale dell’iniziativa, chi ha analizzato il testo a fondo ha sollevato anche questioni concettuali. Per esempio, la studiosa di letteratura Jasamin Ulfat-Seddiqzai indica come problematico il fatto che venga citato come esempio positivo di miglioramento delle condizioni delle donne lo sviluppo dell’Afghanistan negli ultimi anni.
Il femminismo imperialista, cioè l’abuso di ideali femministi utilizzato per giustificare operazioni politiche e militari come l’invasione americana, che danneggia in maniera permanente l’immagine dei diritti delle donne, non viene problematizzato nel testo. L’accoglienza delle donne afghane in fuga, che l’approccio femminista dovrebbe garantire, si scontra poi con la volontà del ministro dei Trasporti Volker Wissing, che sta ritoccando le norme che regolano il salvataggio in mare, nota la studiosa.
Insomma, la trasposizione in pratica del disegno di Baerbock e Schulze, che hanno dovuto presentare il progetto davanti alla cancelleria («e non dentro, nonostante l’inquilino si definisca “femminista”» nota lo Spiegel) è tutt’altro che semplice e avrà bisogno di un maggiore coinvolgimento della popolazione, oltre che del personale diplomatico. È però anche un primo passo verso un approccio inclusivo. Qualcosa di innovativo, non soltanto per le strutture di potere, che però urge ancora normalizzare: «Oggi non annunciamo la rivoluzione, ma un’ovvietà», come direbbe Baerbock.
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