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L’ex sottosegretario agli Esteri con delega all’America latina Donato Di Santo ha proposto alcune idee e azioni che potrebbero nell’immediato futuro orientare l’agenda di politica estera dell’Italia verso il subcontinente.
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Tra le righe delle osservazioni di Di Santo vi è una condivisibile critica alla classe politica italiana, rea di aver sperperato un solido patrimonio di relazioni politiche, economiche e culturali accumulato nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
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Nel post Guerra fredda, infatti, l’Italia non ha prestato la dovuta attenzione alla regione, lasciando in primo luogo alla menzionata Spagna e in tempi più recenti alla Germania, il ruolo di interlocutori di prim’ordine dell’area nell’ambito dell’Ue. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari.
Nel libro Italia e America Latina. Storia di una idea di politica estera del 2021 l’ex sottosegretario agli Esteri con delega all’America latina ed ex segretario generale dell’Organizzazione internazionale italo-latino americana (Iila) Donato Di Santo, ha proposto alcune idee e azioni che potrebbero nell’immediato futuro orientare l’agenda di politica estera dell’Italia verso il subcontinente. Tra queste l’invito a «europeizzare l’approccio europeo all’America latina», evitando di continuare ad assegnare solo alla Spagna il compito di guidare le relazioni euro-latinoamericane e adottando, al contrario, una dottrina comunitaria che esprima realmente gli interessi di tutta l’Unione europea. Ciò avrebbe l’indubbio vantaggio di perseguire una condotta comune all’interno dell’Ue e di valorizzare il contributo anche di altri attori europei, tra cui l’Italia.
Critica all’Italia
Tra le righe delle osservazioni di Di Santo vi è anche una condivisibile critica alla classe politica italiana, rea di aver sperperato, soprattutto tra fine Ventesimo e inizio Ventunesimo secolo, un solido patrimonio di relazioni politiche, economiche e culturali accumulato nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Nel post Guerra fredda, infatti, l’Italia non ha prestato la dovuta attenzione alla regione, lasciando ad altri paesi, in primo luogo alla menzionata Spagna e in tempi più recenti alla Germania, il ruolo di interlocutori di prim’ordine dell’area nell’ambito dell’Ue.
Sconfessando nei fatti vincoli antichi e dissipando una posizione politico economica che era stata di assoluto privilegio, in America latina l’Italia è sostanzialmente arretrata. Se è vero che nell’ultimo decennio del Novecento ciò è dipeso dalla profonda crisi politico istituzionale ed economica che ha condizionato la sua azione di politica estera e dalla ridefinizione degli equilibri internazionali ed europei dopo la fine dell’ordine bipolare, è altrettanto vero che nel corso degli anni Duemila la situazione non è migliorata. Nonostante le intuizioni e la sensibilità di singole personalità, tra cui quelle di Romano Prodi e Massimo D’Alema, che hanno cercato di rilanciare fattivamente le relazioni italo latinoamericane in qualità, rispettivamente, di presidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri nel 2006-2008.
Neanche il ricorso alla conferenza Italia-Alc, che dal 2003 rappresenta uno dei principali strumenti utilizzati dalla nostra diplomazia nelle relazioni con le nazioni latinoamericane, è riuscito a invertire questa rotta.
Se sul piano politico diplomatico l’Italia è sostanzialmente arretrata, le cose non sono andate meglio dal punto di vista delle relazioni economiche. Quasi un decennio fa, l’allora ministro degli Esteri del governo guidato da Mario Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata, ammoniva l’Ue a non privarsi dell’apporto italiano se avesse voluto realmente inserirsi nel mercato latinoamericano, ed esortava il nostro paese ad applicare la «diplomazia della crescita» al fine di sostenere l’internazionalizzazione delle imprese italiane.
Tale condotta avrebbe consentito di raggiungere due obiettivi: colmare il ritardo accumulato dalla penisola nell’approfittare delle opportunità offerte dalle nazioni latinoamericane; migliorare il peso che il subcontinente aveva nel commercio nazionale.
Commercio e interscambio
Nel 2019, l’Italia rappresentava ancora appena il decimo mercato dell’America latina, mentre quest’ultima incideva sull’interscambio commerciale complessivo italiano per poco meno dell’1 per cento. Nel triennio seguente il nostro paese ha perso altre due posizioni e, contestualmente, si è ulteriormente ridotta la quota della regione come fornitrice dell’Italia.
Questi dati dimostrano che, in una congiuntura resa favorevole anche dall’arretramento degli Stati Uniti, l’Italia non ha saputo (forse sarebbe più corretto dire non ha voluto) affermarsi come partner privilegiato dell’America latina e sostenere, con ancor più vigore, le grandi, medie e piccole imprese italiane, la cui rilevanza nel sistema economico latinoamericano è molto elevata.
Le aziende italiane erano e sono presenti soprattutto in Brasile, Argentina e Messico (tradizionali destinatari degli investimenti italiani) e, in anni più recenti, Cile, Venezuela e Colombia. Sebbene la loro presenza sia superiore a quella che si registra in ogni altra regione del pianeta a eccezione dell’Ue, l’andamento del loro fatturato è stato oscillante: di 96 miliardi di euro nel 2013, cui è seguito un vistoso calo nel biennio seguente, e di 70 miliardi nel 2020.
Politica di bassa priorità
Quindi, nulla di nuovo sotto il cielo latinoamericano. Eppure, chi volesse farsi una prima e sommaria idea degli obiettivi della nostra diplomazia verso il subcontinente sarebbe fuorviato da quanto si legge sul focus geografico del sito del Maeci, cioè che l’Italia «riserva» alla regione «una posizione preminente nella sua politica estera».
Questa “preminenza”, in realtà, non ha impedito all’uscente ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio, di attendere circa un anno e mezzo prima di assegnare la delega all’America centrale e ai Caraibi alla viceministra Marina Sereni, mantenendo però per sé quella all’America meridionale.
Del resto, Di Maio non si è mai recato in America latina, in linea con una scarsa attenzione mostrata dal 2015 in poi dagli ultimi tre presidenti del consiglio.
Se escludiamo la visita di Giuseppe Conte in Argentina nel 2018 in occasione del G20, l’ultima missione di un certo respiro è stata quella di Matteo Renzi sette anni fa, allorquando si è recato ufficialmente in Cile, Perù, Colombia e Cuba (e nel 2016 in Argentina, dove un nostro premier non era presente dal 1998). La scelta di visitare i primi tre paesi non è stata ovviamente casuale.
Il governo Renzi intendeva consolidare il dialogo con nazioni stabili economicamente, con una inflazione sotto controllo e caratterizzati da una significativa crescita del Pil, paesi guidati da esecutivi ritenuti “illuminati” e “moderati” e che portavano avanti approcci di stampo liberista in ambito economico e lavorativo. In tale ottica, la visita a Cuba, lungi dal rappresentare un’eccezione, svelava la volontà del nostro paese di muoversi con pragmatismo, puntando su realtà che offrissero margini di penetrazione e di sviluppo per le aziende italiane.
Dopo il 2015-2016, nei fatti, l’Italia non ha mostrato la stessa intraprendenza. Vero è che, rilanciata e riqualificata, l’Iila ha continuato a svolgere meritoriamente il proprio lavoro e che le Conferenze Italia-Alc si sono tenute regolarmente. Ed è vero pure che non si possono trascurare le turbolenze internazionali degli ultimi anni che hanno costretto a rafforzare le direttrici dell’atlantismo e dell’europeismo entro le quali agisce il nostro paese.
Tuttavia, questi aspetti non sembrano giustificare una condotta che molto tempo fa, riferendosi alle relazioni italo latinoamericane nel secondo dopoguerra, lo storico Aldo Albónico ha definito come «politica di bassa priorità e di minimo impegno».
Come allora, e altre volte in passato, l’Italia è sembrata volgere lo sguardo all’America latina solo in caso di bisogno, per poi dimenticarsi dell’area una volta ottenuto il risultato sperato, nell’ambito di un atteggiamento che punta a piccoli obiettivi immediati e di corto respiro. C’è da augurarsi che il lodevole tentativo di questi mesi, teso a ottenere il consenso latinoamericano per l’assegnazione dell’Expo 2030 alla capitale, non rientri in questo schema.
Da dove ripartire
In sintesi, scomodando un altro fine conoscitore dell’area, l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana, bisognerebbe evitare che nei prossimi anni l’Italia, nei suoi rapporti con l’America latina, tornasse a essere affetta da strabismo. Per scongiurare tale rischio, il prossimo ministro degli Esteri dovrebbe circondarsi di persone qualificate e competenti e non farsi guidare dal manuale Cencelli; e sostenere adeguatamente gli istituti italiani di Cultura (in tutto undici per un’area geografica vastissima). Il futuro ministro dello Sviluppo economico dovrebbe, invece, incrementare la rete di uffici di interesse (attualmente sette), dell’Ice Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.
L’America latina rappresenta attualmente il 9 per cento della popolazione mondiale e il 10 per cento del Pil globale. È una regione che non crea tensioni sul piano internazionale, pur registrando sul piano interno tassi elevatissimi di violenza, criminalità e corruzione.
L’Italia, come detto all’inizio, può vantare un patrimonio storico di vincoli politici e culturali che pochi altri paesi al mondo posseggono. Forse è giunto il momento di ricordarsene e di ripartire da qui.
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