- Il dibattito di pre-campagna delle primarie si infiamma attorno alla questione della guerra.
- I repubblicani non sono convinti della strategia adottata da Biden.
- Le tensioni tra alleati devono essere sanate subito.
«La gratuita estensione territoriale» dell’occidente verso est – per usare le parole di Rino Formica – rischia di iniziare a costare troppo, almeno secondo il pubblico americano.
L’iniziale pre-campagna delle primarie Usa ci offre già un’idea di ciò che sarà posto al centro dell’attenzione. Al lancio della sua sfida Donald Trump ha esordito annunciando di voler terminare subito la guerra: se ci fosse stato lui alla Casa Bianca non sarebbe mai iniziata, ha detto.
Siamo abituati alle intemerate dell’ex presidente ma quando anche Ron DeSantis, governatore della Florida e uno dei favoriti alla corsa per la candidatura repubblicana, afferma che «gli Usa hanno altro a cui pensare che a stupide questioni territoriali europee», significa che qualcosa sta cambiando.
Insistenti voci danno l’amministrazione di Joe Biden intenta a convincere gli ucraini perché scelgano una exit strategy dal conflitto, per ora senza effetti. Se tali insistenze avranno successo lo vedremo sul fronte di Bakhmut: secondo gli Stati Uniti è inutile tenerlo, mentre gli ucraini gli attribuiscono un forte valore simbolico.
Recenti dati pubblicati in America descrivono la situazione dell’esercito ucraino come molto difficile: ben 120mila soldati ucraini fuori combattimento contro i circa 200mila della parte russa che dispone però di un esercito molto più numeroso e di una popolazione circa tripla.
Le testimonianze parlano di un esercito di Kiev in affanno, che ha perso tutta la parte più esperta ed ora si basa su riservisti poco addestrati.
Il sabotaggio di Nord Stream
Anche la polemica scatenata dalle rivelazioni sul sabotaggio del gasdotto Nord Stream contribuiscono all’incertezza su una guerra che inizia a stancare il pubblico americano, in particolare la sua parte repubblicana.
Il goffo tentativo (venuto dagli Stati Uniti) di addossare la responsabilità della distruzione del Nord Stream ad improbabili forze ucraine, prive della tecnologia e dell’addestramento necessari per svolgere una simile operazione, mostra quanto l’agitazione sia intensa.
Anche se non tutti gli danno credito, in particolare la grande stampa Usa, le rivelazioni di Seymour Hersh dello scorso 8 febbraio stanno amplificando la polemica.
Secondo il noto e controverso giornalista investigativo, l’operazione di sabotaggio dei gasdotti di settembre scorso è opera delle forze speciali americane su ordine diretto del presidente, con la complicità attiva del governo norvegese.
Ovviamente tali rivelazioni hanno scatenato una ridda di smentite da parte di tutta l’amministrazione Usa. Dal punto di vista europeo in questa storia la cosa più sorprendente è il totale silenzio delle autorità tedesche, le quali non hanno protestato per l’evidente violazione della propria sovranità nazionale.
Invece, per la politica americana sulla sostanza dell’azione non c’è divergenza, come ha dichiarato il senatore repubblicano Ted Cruz. secondo il quale il fatto che del Nord Stream «non rimangano che pezzi di ferro in fondo al mare» è una buona notizia.
Ciò che si discute piuttosto è la modalità dell’azione e il fatto che siano stati tenuti all’oscuro gli alleati della Nato, non solo la Germania. Questo rischia di creare astio e diffidenza nell’alleanza atlantica, tensioni che oggi non si vedono ma che un domani potrebbero pesare.
Mediazioni cinesi
A complicare ancor più il quadro è giunta la notizia dell’iniziativa cinese sul ravvicinamento tra Iran e Arabia Saudita.
Pechino mette per la prima volta direttamente le mani in medio oriente dal punto di vista politico. Lo choc negli Stati Uniti è forte: un loro alleato storico che si mette d’accordo con un altrettanto storico nemico, per di più grazie all’intermediazione della potenza globale avversa.
Gli Accordi di Abramo, concepiti dall’amministrazione Trump e che avevano mutato l’intero scenario geopolitico mediorientale a vantaggio di Washington, iniziano a scricchiolare.
Anzi: l’avvento del governo Netanyahu e della sua maggioranza di ultra-destra rischia di far deragliare l’intero processo. Se a ciò si aggiungono i movimenti turchi per riallacciare sia con Riad che con Teheran, ecco che tutti gli allarmi stanno suonando a Washington.
Quella che per i governi europei pare essere una guerra esistenziale contro la Russia, per gli Stati Uniti diviene un elemento del più complesso puzzle strategico in cui la posta in gioco è la supremazia globale.
Da qui discende che Donbass o Crimea possono divenire «una stupida questione territoriale europea». Si tratta di un modo tutto americano di guardare alle crisi europee che già abbiamo visto in passato, per esempio nelle polemiche che precedettero (e talvolta seguirono) l’intervento Usa nella Prima e Seconda guerra mondiale.
C’è sempre stata una parte dell’opinione pubblica americana incline a concentrarsi solo sull’interesse primario della nazione: la leadership globale.
Ciò significa che Washington potrebbe accontentarsi di aver indebolito la Russia o di una situazione di stallo sul terreno, magari affidando agli europei la responsabilità del dopo.
Per questo è essenziale che l’Europa reagisca e il modo migliore è coinvolgere gli Stati Uniti in un negoziato generale con la Russia che tenga conto anche degli interessi di sicurezza europei (a lungo termine).
Una specie di nuova Helsinki che ritracci le linee di fondo della sistemazione delle frontiere e delle garanzie militari in Europa, prima che gli Stati Uniti decidano da soli o diminuiscano il loro impegno perché distratti altrove.
L’amministrazione Biden sta vivendo questo dilemma proprio ora. Più si avvicinano le elezioni americane e più il rischio potenziale di divaricazione tra interessi americani ed europei aumenta. Se poi dovessero prevalere i repubblicani, ci dobbiamo attendere ad un cambiamento di linea. Non è interesse dell’Italia che ciò accada senza dialogo.
Ogni tensione inespressa oggi, può diventare una frattura domani, magari latente ma con effetti futuri negativi per l’occidente.
È quindi necessaria un’opera urgente di cucitura e ricucitura, in cui anche Roma può giocare un suo ruolo. Non è auspicabile lasciar aumentare le divergenze tra paesi europei o – peggio ancora – in seno alla Nato.
L’Europa che uscirà dalla guerra vedrà una Polonia ben armata e cresciuta in autorevolezza; un’Ucraina governata dai reduci del conflitto; paesi nordici e Baltici su posizioni più rigide che in passato; una Gran Bretagna di ritorno in Europa anche se in modo diverso.
Con quale Unione avremo a che fare? Che riequilibrio subiranno i rapporti atlantici? Certamente avremo tutti bisogno di un alleanza più duttile e più coesa.
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