Siamo passati da uno Stato New Deal relativamente egualitario all’apparato aziendale diseguale e concentrato di oggi. Questo cambiamento è stato accompagnato da un cambiamento parallelo nel modo in cui gli americani pensano a sé stessi come attori economici e politici.
L’autoconsapevolezza che l’uguaglianza economica tra i cittadini fosse fondativa dell’esperimento americano ha rappresentato una tendenza di lunga data per l’America.
Come è stato possibile spostare la concezione individuale da questa idea a quella odierna per cui la diseguaglianza radicale è caratteristica innata del capitalismo americano?
Da uno Stato New Deal relativamente egualitario si è passati all’apparato aziendale diseguale e concentrato di oggi. E questo cambiamento ha modificato in parallelo anche il modo in cui gli americani pensano a sé stessi come attori economici e politici.
Il capitalismo americano ha sempre significato uguaglianza e sicurezza economica. Quando lo dico in dibattiti e conferenze, oggi, questa osservazione suscita risate. Ma è vero. Gli americani credevano che l’uguaglianza economica fosse fondamentale per il nostro sistema politico. Quell’America, almeno per chi era considerato cittadino, portava con sé una promessa di una approssimativa uguaglianza. Cosa è successo dopo?
Nel 2008 abbiamo affrontato una crisi finanziaria che ha definito il modo in cui gli americani considerano il proprio sistema economico. Come ha osservato l’ex funzionario di Bill Clinton, Reed Hundt, il presidente Barack Obama e i suoi consiglieri hanno perso l’opportunità di riordinare le priorità sociali. Pur operando in buona fede, hanno finito per abbracciare un quadro politico-economico che spostava la ricchezza e il potere in alto.
Ero membro dello staff del Congresso durante la crisi ed è stato incredibilmente difficile capire perché i nostri leader politici hanno gestito il collasso del nostro sistema finanziario in una maniera così destabilizzante. Non capivano che i massicci interventi per dare priorità agli interessi dei potenti avrebbero minato la legittimità del sistema politico?
Per rispondere a questa domanda ho guardato a come i leader americani hanno gestito la crisi finanziaria dei continui assalti agli sportelli bancari dal 1929 al 1933. Quello che ho notato sono state le profonde differenze ideologiche che si sono manifestate in risposta alla crisi.
In breve, negli anni Trenta i New Dealer hanno smembrato le banche e hanno riformato l’economia. Dopo il 2008 non l’abbiamo fatto. La mia conclusione, dopo aver studiato il modo in cui i New Dealer concepivano il mondo, rispetto a come lo concepivano i nuovi democratici attorno a Obama, è che il significato del capitalismo americano è cambiato. Siamo passati da un stato uscito dal New Deal relativamente egualitario all’apparato aziendale diseguale e concentrato di oggi.
Liberalismi e monopoli
Nel 1954 l’economista antitrust di Harvard Carl Kaysen scriveva su New Republic che «siamo diventati molto ricchi», ha affermato, e «non ci sono più ore di lavoro in eccesso e salari troppo bassi per la massa degli operai». Questa visione, che il conflitto con il potere economico era stato risolto a favore delle forze democratiche, era così accettata all’epoca che il presidente repubblicano Dwight Eisenhower prese le distanze da Herbert Hoover, il presidente Repubblicano del periodo della Depressione, e ridicolizzò l’idea che qualcuno potesse voler eliminare il welfare.
«Le banche offrono un’opportunità a un giovane istruito, simpatico e non particolarmente coraggioso di una vita piacevole, interessante, dignitosa», scriveva un banchiere di Chicago nel 1950. John Kenneth Galbraith, il più importante economista del suo tempo, sbeffeggiò l’idea che i dirigenti cercassero retribuzioni eccessive. Il «tipico dirigente d’azienda», scriveva nel 1958, «sicuramente metterebbe in pericolo la propria possibilità di avanzamento se fosse sospettato di essere uno scansafatiche se si lamentasse per reddito al netto delle tasse».
Scrivendo di John D. Rockefeller, il grande giornalista Walter Lippmann affermò nel 1937: «Prima che avviasse le sue imprese, non era possibile guadagnare così tanti soldi; prima che morisse, era diventata la politica consolidata di questo paese che a nessuno sarebbe stato permesso di guadagnare così tanti soldi. Ha vissuto abbastanza a lungo per vedere i metodi per mezzo dei quali una tale fortuna può essere accumulata messi fuori legge e scoraggiati dal fisco».
Nel 1952 il New Dealer David Lilienthal sosteneva che il New Deal aveva raggiunto il suo scopo. «L’onnipotente datore di lavoro tirannico è quasi scomparso. È scomparsa anche, tranne che per gli storici, l’immagine di lavoratori che devono sopportare lunghe ore di lavoro, senza ferie, senza un’opportunità decente di far sentire le loro lamentele».
Per trovare il monopolio e la disuguaglianza, come scriveva l’antimonopolista e membro del Congresso Emanuel Celler nella sua biografia nel 1953, bisognava viaggiare in Europa, dove tra le ex aristocrazie e regni impoveriti si potevano osservare «la ricchezza concentrata nelle mani di pochi e la cupa fatica quotidiana della maggioranza delle persone per il pane».
Celler attribuiva queste differenze al sistema americano di piccole imprese basate sul mercato, mentre il sistema europeo consisteva di monopoli e cartelli. «La produzione europea», osservava, «per mantenere i profitti alti e i grattacapi a un livello basso, ha respinto il vigore della concorrenza, l’apporto di nuove idee, lo stimolo e lo sprone di ingegno che creano un’economia dinamica».
Addio all’egualitarismo
Il passaggio di Celler mi ha ricordato le prime righe della grande discussione di Alexis de Tocqueville sulla democrazia americana negli anni Trenta dell’Ottocento, quando, scriveva, «nulla mi ha colpito con maggior forza della generale uguaglianza delle condizioni». L’uguaglianza economica non era di certo l’unico pilastro dell’autopercezione americana. Anche le divisioni razziali e di genere e le strutture tiranniche erano elementi fondativi dell’esperimento americano. I dibattiti sull’identità culturale però erano spesso orientati intorno a chi potesse essere cittadino. La cittadinanza, una volta ottenuta, includeva una serie di diritti politici ed economici. Anche prima della Rivoluzione, nel 1765, John Adams disse: «La proprietà monopolizzata o nelle mani di pochi è una maledizione per l’umanità. Non dovremmo preservare un’uguaglianza assoluta, questo non è necessario, ma dovremmo preservare tutti dall’estrema povertà, e anche dai ricchi stravaganti».
L’idea dei mercati americani come forza che genera uguaglianza e si oppone o l’aristocrazia rappresenta ha una lunga tradizione. L’uguaglianza non è necessariamente di redditi, ma di diritti nel mercato. Com’è cambiato così radicalmente questo atteggiamento? Come abbiamo spostato la nostra concezione individuale dall’idea che l’America fosse un esperimento di egualitarismo economico per i cittadini all’idea generale odierna che la diseguaglianza radicale è una caratteristica innata del capitalismo americano?
Riconduco questo cambiamento a tre uomini. I primi due sono di sinistra: John Kenneth Galbraith, il grande economista, e Richard Hofstadter, il grande storico. Galbraith, un coraggioso oppositore della guerra in Vietnam, ha scritto un best-seller dopo l’altro e coniò il famoso termine «conventional wisdom», la saggezza popolare.
Entrambi ritenevano che la storia si svolgesse in una specie di maniera scientifico-meccanicista e che il monopolio fosse progressivo e inevitabile. Galbraith formulò una serie di teorie che incoraggiavano la sinistra a smettere di preoccupatsi delle concentrazioni di potere economico: nella sua sua visione l’America era infinitamente e automaticamente produttiva.
Hofstadter scrisse una nuova versione della storia in cui cancellò le precedenti famose lotte al potere di monopolio e al capitale finanziario. Secondo Hoftstadter: «Gli americani potrebbero non aver litigato su temi ideologici profondi, come questi sono stati formulati nella storia del pensiero politico, ma hanno litigato a sufficienza su questioni che avevano un vero fulcro e momento».
«Fulcro e momento» è un’espressione meravigliosa, ma questa versione della storia nasconde un vero conflitto sulla politica della produzione. Hofstadter si spinse fino a deridere l’idea che ci fossero delle reali divergenze ideologiche tra Herbert Hoover e Franklin Delano Roosevelt.
Hofstadter aveva una diversa visione di giustizia sociale, che sostituiva la lotta per l’uguaglianza economica e la lotta contro l’aristocrazia sotto forma di monopolio e di concentrazione finanziaria. Sosteneva che i conflitti precedenti, sebbene nel campo dell’economia politica, riguardavano in realtà uomini anglosassoni che stavano perdendo la propria influenza sulla cultura a causa di una emergente società di immigrati poliglotti.
I populisti degli anni Novanta dell’Ottocento non erano, nella sua visione, contadini arrabbiati per la ferrovia, ma proto-fascisti simili ai piccoli uomini d’affari bianchi e razzisti che amavano Joseph McCarthy e le sue cacce alle streghe anticomuniste degli anni Cinquanta. Al contrario, i banchieri di Wall Street erano progressisti cosmopoliti lungimiranti.
Lo scopo della politica non era combattere la plutocrazia, ma lavorare sulla tolleranza, la pace, la soddisfazione psicologica, la bellezza e l’arte in una società benestante assediata da conflitti stranieri immorali. Galbraith e Hofstader finirono per cancellare il potere delle aziende dalla lista dei problemi di cui i Democratici dovevano preoccuparsi.
Le teorie pro-concentrazione
Il terzo uomo era Aaron Director, che ha creato l’approccio law and economics all’Università di Chicago fine di istituzionalizzare le teorie pro-concentrazione a destra. Director non ha lasciato quasi niente di scritto, fu però un brillante professore e stratega e silenziosamente convertì gli altri al suo modo di pensare. Più di chiunque altro Director ha distolto anche i conservatori dal loro tradizionale scetticismo per le concentrazioni di potere e li ha spinti ad abbracciare pienamente il monopolio. Director contribuì a far cambiare idea a persone come Milton Friedman, George Stigler, Robert Bork, John McGee, Richard Posner, eccetera.
Negli anni Sessanta le menti dell’enorme generazione del baby boom si sono formate direttamente o indirettamente su Hofstadter, Galbraith e Director. Nel decennio successivo è avvenuto il passaggio dal concetto di giustizia del New Deal a questa struttura neoliberista.
Nel suo libro Changing Sources of Power, Fred Dutton, un politico che contribuì a riorganizzare il Partito democratico dopo la Convention del 1968, essenzialmente suggeriva di eliminare la classe operaia bianca dalla coalizione democratica. Dutton scriveva che «l’equilibrio del potere politico era passato dall’economico allo psicologico in una certa misura, dallo stomaco e dal portafoglio alla psiche, e forse prima o poi all’anima». Nel 1975 una generazione formata su queste idee è arrivata al Partito democratico. Era la generazione di Bill Clinton, i cosiddetti Watergate Babies. Nel 1978 la versione Repubblicana dei Watergate Babies è entrata in carica come New Right, nuova destra, (un gruppo che comprendeva un giovane Newt Gingrich).
Il monopolio inevitabile?
Dal 1975 fino agli inizi degli anni Ottanta, queste fazioni nuove e sempre più dominanti di entrambi i partiti hanno ristrutturato la politica attorno all’idea che il potere finanziario concentrato – il potere di monopolio – fosse per lo più inevitabile ed efficiente.
Jimmy Carter ha cambiato le regole della finanza, degli autotrasporti, delle compagnie aeree e delle telecomunicazioni, permettendo che un capitale privato concentrato regolasse queste sfere dell’economia invece delle istituzioni democratiche.
Ronald Reagan ha proseguito questa tendenza che è diventata nota come deregulation, la deregolamentazione. Reagan ha anche eliminato l’applicazione dei limiti antitrust. I democratici hanno notato i tagli del governo e gli attacchi ai sindacati, ma in gran parte si sono persi il cambiamento relativo all’antitrust.
Arriva poi Michael Milken, il banchiere che appartiene all’era del barone rapinatore del 1880. Milken è affascinante perché è un organizzatore chiave della ristrutturazione degli anni Ottanta dell’America aziendale, ma con l’atteggiamento di un rivoluzionario contro-culturale. Nel 1970 scriveva: «A differenza degli altri crociati di Berkeley, ho scelto Wall Street come mio campo di battaglia per migliorare la società».
Milken ha aiutato una serie di importanti aziende, tra cui Cnn e Mci, a ottenere finanziamenti negli anni Ottanta. Ma il suo contributo duraturo all’ordine economico americano è stato quello di cambiare le imprese da struttura legale progettata per la produzione di beni e servizi a una struttura progettata esclusivamente per produrre denaro.
Milken ha usato i bond spazzatura per concentrare il potere aziendale dagli inizi degli anni Settanta fino al 1989, quando il mercato dei titoli spazzatura crollò. I raider che spesso Milken ha puntato hanno preso di mira società ben gestite, con grandi dipartimenti di ricerca, una prudente gestione della liquidità e molte risorse (cioè le fabbriche), cose che si possono prendere e vendere per ottenere contanti da pagare alla direzione o ai finanzieri. Milken ha spinto i leader aziendali a concentrarsi esclusivamente sulla liquidità.
Questi raider operavano in nome dell’efficienza, basandosi su alcune delle teorie che i discepoli di Director avevano formulato. Tanti dei personaggi dietro a Donald Trump, come Carl Icahn, fanno parte della rivoluzione iniziata da Milken. E non si tratta solo di Trump. Mitt Romney, ad esempio, ha fatto fortuna nel private equity, il termine attribuito al settore del leveraged buyout (l’acquisizione a debito) dopo che il nome era diventato tossico.
Milken non ha fatto questo perché era brillante, ma perché il contesto politico era cambiato. Reagan ha allentato l’applicazione dell’antitrust e del norme di contrasto alla criminalità dei colletti bianchi, con poche opposizioni da parte dei democratici. Gli sforzi di deregolamentazione di Reagan e Carter, insieme con la rimozione delle regole finanziarie risalenti all’epoca del New Deal, hanno aperto le porte a Milken, e lui è entrato.
Addio mercato aperto
Nel 1993 sembrava che questo cambio strutturale fosse ancora reversibile. Bill Clinton, un democratico, diventava presidente e insieme con lui un Congresso democratico. In realtà questo fu il momento in cui il nuovo quadro intellettuale delineato da Hofstadter, Galbraith e Director si consolidò maggiormente.
Clinton era un Watergate Baby e organizzò il governo per portare a livello globale la rivoluzione dell’economia politica che Reagan aveva contribuito a organizzare a livello nazionale.
L’era Clinton parve a molti un successo, con aumenti salariali e la rivoluzione del personal computer e di internet. E con show come la serie televisiva West Wing, e politici che portavano il modello clintoniano nel mondo come Tony Blair, la visione che Clinton promuoveva determinò il modo in cui la maggior parte degli americani e il centro sinistra a livello globale vedevano la politica.
Le domande sull’organizzazione del sistema produttivo non avevano più importanza, sono state ridotte a debole eco che limitava il dibattito di politica economica a qualche aumento dei salari minimi, ma la politica smise di occuparsi del potere (e dello strapotere) delle aziende. Nel 1953 gli americani davano per scontata l’uguaglianza delle condizioni economiche. Vedevano i mercati come uno strumento per dare a tutti le stesse opportunità e i monopoli e le agglomerazioni fnanziarie come potenziali minacce all’egualitarismo del capitalismo americano. Ma nel 2009, dopo la crisi finanziaria, i nostri leader non erano più in grado di distinguere tra un mercato aperto sano e un potere finanziario concentrato e pensavano che il capitalismo americano implicasse una disuguaglianza radicale.
Quell’anno a Barack Obama fu chiesto perché lo stato non avesse nazionalizzato le banche e non le avesse ristrutturate, come aveva fatto la Svezia all’inizio degli anni Novanta quando aveva attraversato una simile crisi bancaria. La Svezia aveva basato il suo modello di risoluzione bancaria su ciò che Roosevelt aveva fatto negli anni Trenta. Quando a Obama è stata posta questa domanda si parlava dell’idea delle banche Too Big to Fail, troppo grandi per fallire: uno slogan popolare che riportava per la prima volta la questione della concentrazione di potere al centro del dibattito, argomenti che non si sentivano più dal celebre libro Con i soldi degli altri di Luis Brandeis, giudice della Corte suprema morto suicida nel 1941. Obama rispose che il piano della Svezia era una buona idea, per la Svezia: un piccolo paese con un numero esiguo di banche. L’America è molto più grande. Inoltre, ha aggiunto: «In questo paese abbiamo anche tradizioni diverse».
Questo testo è uscito in inglese su ProMarket.org, la pubblicazione dello Stigler Center della University of Chicago - Booth School of Business
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