- Joe Biden ha gestito il vertice con Vladimir Putin essenzialmente come un incontro d’affari, una questione freddamente transazionale in cui le parti misurano le convenienze alla luce del proprio interesse.
- In altre parole, Biden ha affrontato Putin con le stesse premesse, la stessa postura politica e la stessa impostazione di fondo che venivano imputate a Donald Trump come peccati mortali e certificazioni di impresentabilità.
- Nel bilaterale con Putin si è percepita una tensione, se non una rottura, con il paradigma dell’internazionalismo liberal che ha dominato la politica estera americana dalla fine delle Guerra fredda fino all’elezione di Trump.
Joe Biden ha gestito il vertice con Vladimir Putin essenzialmente come un incontro d’affari, una questione freddamente transazionale in cui le parti misurano le convenienze alla luce del proprio interesse, esibiscono i punti di forza nel negoziato e ognuno cerca di spuntare il miglior risultato possibile.
Nessuno si è proteso a guardare nell’anima dell’altro e nessuno ha chiamato l’altro un “killer”, come ha osservato Peter Baker sul New York Times. Biden non si è posto l’obiettivo ambizioso e obamiano di rilanciare qualche forma di “reset” delle relazioni con la Russia, per il quale non c’è il minimo spazio politico al momento, ma ha programmaticamente abbassato profilo e aspettative, segnalando in tutti i modi che quella di Ginerva era una conversazione fra potenze con interessi in attrito, non un dialogo apocalittico fra visioni del mondo inconciliabili.
Biden non ha nemmeno fatto concessioni alla «fiducia», categoria che ha un peso enorme nella geopolitica. «La fiducia non c’entra nulla. C’entrano l’interesse e la verifica dell’interesse», ha detto, allontanandosi dal moderatamente idealistico motto reaganiano «fidati, ma verifica» per approssimarsi al più pragmatico «parla a voce bassa, ma portati un grosso bastone» di Teddy Roosevelt. Si discute, ci si misura e poi la vita va avanti.
Un altro modo per dire la stessa cosa è che Biden ha affrontato Putin con le stesse premesse, la stessa postura politica e la stessa impostazione di fondo che venivano imputate a Donald Trump come peccati mortali e certificazioni di impresentabilità.
Per trovare ulteriore conferma dell’inadeguatezza di Trump si diceva che l’immobiliarista diventato presidente gestisse le relazioni internazionali come negoziati di real estate, lui che aveva fissato i suoi principi di vita, se vogliamo chiamarli così, nel libro The Art of the Deal.
La critica aveva un difetto di prospettiva. Il problema era che Trump dialogava con i leader internazionali, da Putin a Kim Jong-un, come affrontava i suoi incontri di business, cioè in modo dilettantesco e senza il minimo senso strategico. Lo scopo finale era l’equivalente politico di affiggere il suo cognome a lettere dorate su un palazzo brutto a scelta.
Biden evidentemente ha seppellito il dilettantismo di Trump, ma non ha affatto archiviato il pragmatismo di chi cerca accordi vantaggiosi con qualunque partner, muovendosi in un’orbita dove il centro di gravità sono gli interessi specifici, non gli ideali e i valori generici.
Nel bilaterale con Putin si è percepita una tensione, se non una rottura, con il paradigma dell’internazionalismo liberal che ha dominato la politica estera americana dalla fine delle Guerra fredda fino all’elezione di Trump, quello per cui le scelte politiche dovrebbero essere subordinate agli ideali civilizzatori dell’eccezionalismo americano. Biden si è seduto di fronte a Putin armato di realismo, cosa che non potrà che dispiacere ai più ardenti teorici della restaurazione dell’era pre-Trump nelle relazioni internazionali.
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