- Il rapporto complesso di Benedetto XVI con i teologi progressisti dell’America Latina illumina il senso del suo intero pontificato.
- Il continente contiene una stratificazione di tempi, antichissimi e iper-contemporanei, in cui l’elemento religioso si intreccia in modo inestricabile con il culturale, il sociale, il politico.
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Il 2023 si è aperto con la morte del “papa emerito”, il tedesco Joseph Aloisius Ratzinger. Una figura che ha attraversato il lungo Novecento e le sue contraddizioni, ben oltre i limiti del «secolo breve» ideato dallo storico inglese Eric J. Hobsbawm.
Nato in un villaggio della Baviera nel 1927, in piena Repubblica di Weimar, Ratzinger aveva sei anni quando Hitler divenne cancelliere, dodici quando la Germania aprì il vortice della Seconda guerra mondiale e diciotto quando il conflitto si concluse, tra le macerie di Berlino.
Ordinato sacerdote nel 1951, nel momento più duro della Guerra fredda che contrapponeva Stati Uniti e Unione sovietica (negli anni del conflitto coreano), visse per anni da intellettuale e accademico, segnalandosi (in particolare nel periodo di Tubinga condiviso con un altro pensatore più di rottura come lo svizzero Hans Küng) come un giovane brillante teologo e filosofo.
Partecipò al Concilio vaticano II come perito e iniziò a consolidarsi come studioso della relazione tra cattolicesimo e modernità a partire dal suo secondo volume, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, del 1969. Nel 1977 divenne arcivescovo di Monaco per ottenere di lì a poco il cardinalato da Papa Paolo VI.
Severo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Santo Uffizio), dal 1982 al 2005, scelto per volere di Giovanni Paolo II, guidò per oltre vent’anni anche la pontificia Commissione biblica e la Commissione teologica internazionale, attraversando la stagione della “nuova Guerra fredda”, delle deregulation reaganiane, della fine del bipolarismo e dell’ascesa della finanza globale.
Assurto al soglio pontificio il 19 aprile del 2005 come Benedetto XVI, dopo meno di otto anni avrebbe rinunciato al papato con una mossa sorprendente, aprendo la strada al conclave che avrebbe eletto come suo successore, il 13 marzo 2013, l’argentino Jorge Mario Bergoglio.
Svariate sfaccettature
Nonostante la vulgata comune voglia vedere in Ratzinger (in particolare in quello rigidamente istituzionale degli anni Ottanta e Novanta del pontificato di Giovanni Paolo II) il campione del cattolicesimo europeo intransigente, immagine indubbiamente consolidata da una serie di uscite pubbliche, papa Benedetto XVI si è dimostrato un uomo dalle svariate sfaccettature: un cattolico conservatore ma disposto a confrontarsi con i dilemmi della contemporaneità.
Curiosamente proprio il rapporto complesso di questo ecclesiastico tedesco con l’America latina ci aiuta a comprenderne alcuni caratteri di questa relazione, meno statica di quanto possa apparire a una prima lettura. L’America latina contiene infatti una stratificazione di tempi, antichissimi e ipercontemporanei, capaci di convivere tra di loro e in cui l’elemento religioso non appare mai secondario ma si intreccia inestricabilmente con il sociale, il politico, il culturale, l’arte, l’etica, anche nei contesti apparentemente più secolarizzati o, perfino, anticlericali.
Ratzinger ha vissuto questo rapporto ora con una certa prudente attenzione (gli anni Sessanta e Settanta), poi su posizioni decisamente difensive dell’impianto curiale del pontificato woytiliano (gli anni Ottanta e Novanta), per riaprirsi infine a timide sperimentazioni, come emerge dai pochi viaggi nel subcontinente compiuti come papa: nel 2007 in Brasile, in occasione della Conferenza di Aparecida del Celam (15 anni dopo quella anodina di Santo Domingo e a 39 da quella incendiaria di Medellín), in Messico e a Cuba nel 2012.
L’“altra America”
In attesa del completarsi della pubblicazione da parte della Libreria Editrice Vaticana della sua opera omnia (in 16 volumi), dai documenti disponibili si può cominciare a trarre qualche prima generica riflessione. Nel suo sforzo di condurre una strenua lotta al relativismo, anche a costo di mettersi in gioco in un confronto pubblico con i fautori della scienza e delle diverse forme di scientismo, abbeverandosi alle fonti teologiche ed ergendosi (per quanto discretamente) a una difesa il più possibile ortodossa del Vangelo e del magistero ecclesiastico, il teologo Ratzinger, ancor prima del prefetto e del pontefice, ha costruito un rapporto composito con il subcontinente: segnato da profonde incomprensioni ma tutto sommato peculiare nel suo rapportarsi alla multiforme cattolicità della cosiddetta “altra America”.
Preoccupato fin dai tardi anni Sessanta dalle tendenze marxiste che intravedeva crescere in seno alla chiesa del cosiddetto dissenso (anche attraverso le reti transatlantiche consolidatesi, in modo informale ma anche formale, specie in seno ad alcuni ordini religiosi, negli anni postconciliari) e attento alla tutela della sacralità del rito e della liturgia, Ratzinger non fu affatto in sintonia con molte delle proposte derivanti dalle diverse forme di sperimentazione teologica e socio-pastorale che, dopo la conferenza Medellín del Celam (1968), si svilupparono magmaticamente in America latina nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Esperienze che spesso, piuttosto schematicamente, vengono racchiuse sotto l’ombrello generalizzante della categoria di teologia della liberazione.
I teologi liberazionisti
Il timore del disordine (che avrebbe poi profondamente inciso anche sulla sua esperienza di pontefice), la paura del clero indigeno e il rifiuto dei sincretismi, avrebbero collocato Ratzinger in una posizione difensiva della tradizione ecclesiastica occidentale, dell’idea di verità e delle forme di evangelizzazione, nonché dell’Universitas Cristianorum di matrice europea.
La sua critica si sarebbe però giocata principalmente sul terreno teologico, scostandosi parzialmente da altre forme (in voga in particolare durante il pontificato di Giovanni Paolo II) di neoconservatorismo tradizionalista e in una linea tutto sommato diversa dai richiami dell’assolutismo dottrinale.
Emblematici al riguardo risultano sia i suoi interventi magisteriali degli anni Ottanta, sia le successive polemiche intorno alla relazione tra evangelizzazione e conquista che accompagnarono il suo viaggio brasiliano del 2007.
Nei primi anni Ottanta, segnati dalla tragedia centroamericana, la Congregazione per la dottrina della fede, da lui presieduta, rappresentò infatti una sorta di baluardo dottrinale contro le sperimentazioni più politicamente scomode in atto in America latina ma al contempo svolse un complesso lavoro di studio teologico che puntava a chiarire a livello dottrinale e magisteriale i nodi più problematici della teologia della liberazione.
Ne scaturirono due note istruzioni, Libertatis Nuntius del 6 agosto 1984 e Libertatis Conscientia del 22 marzo 1986, che generalmente sono intese come la condanna ufficiale dei teologi liberazionisti: una sorta di definitivo rigetto delle tesi di Gutiérrez, che nel frattempo aveva avviato un percorso di maturazione delle proprie posizioni giovanili, di Boff, dei Sacerdotes para el Tercer mundo, e una pubblica reprimenda del gesuita Jon Sobrino e della sua cristologia «troppo umanizzata».
Senza entrare qui nel merito di un dibattito così complesso, conta notare che questa fu indubbiamente l’immagine pubblica che accompagnò le istruzioni, giocata anche dalla stessa Santa Sede nel clima mediatico della “nuova Guerra fredda”, nella presentazione di quei provvedimenti.
«Rischi di deviazioni»
In realtà, se si vanno a rileggere con attenzione i documenti, emerge una posizione molto più articolata da parte di Ratzinger che sembra discostarsi dalla tesi della condanna tout court. Nei documenti della Congregazione si cercò infatti di sottolineare il tema della liberazione come «liberazione dal peccato» e ribadire che questa non inficiava la naturale vicinanza della chiesa cattolica ai poveri, salvando l’idea della «opción por los pobres» di Medellín, nell’accezione più moderata della «opción preferencial por los pobres» della Conferenza di Puebla (1979).
Nell’incipit dell’istruzione del 1984 il prefetto è molto esplicito al riguardo, quando afferma: «La presente Istruzione ha uno scopo più preciso e limitato: essa intende attirare l’attenzione dei pastori, dei teologi e di tutti i fedeli, sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della liberazione, che ricorrono in maniera non sufficientemente critica a concetti mutuati da diverse correnti del pensiero marxista».
Quell’intervento, in fondo non troppo dissimile da alcune uscite pubbliche dell’ex generale dei gesuiti, Pedro Arrupe (a quel tempo già messo fuori gioco dall’ictus), genericamente inteso come il campione del riformismo anti woytiliano, poneva infatti dei paletti rigidi ma non si estendeva in modo invasivo ad altri territori (pastorali in primis) esterni all’orizzonte teologico: proprio quelli in cui di fatto si era dispiegata sul campo (sociale in primis) l’azione ecclesiale latinoamericana in quell’ultimo trentennio.
Il rapporto spada-croce, l’intreccio tra dinamiche sociali antiche e le nuove esigenze strategiche, la riflessione sull’uso della violenza e la tutela dei diritti umani, come aveva affermato e scritto monsignor Oscar Romero prima di essere ucciso, chiamavano in causa la chiesa nell’altro occidente e il prefetto ne era in qualche modo consapevole.
Fede e tolleranza
Quando vent’anni dopo, ad Aparecida, papa Benedetto XVI venne severamente contestato da comunità indigene, comunità ecclesiali di base e leader politici (tra cui il venezuelano Hugo Chávez) per una sua uscita apparentemente difensiva delle logiche evangelizzatrici della conquista, pur senza arrivare a una pubblica ammissione di colpa (tema politicamente delicatissimo in questi ultimi anni di dibattiti intorno alla cosiddetta cancel culture), seppe rimettersi in discussione, riarticolando la propria riflessione e prestando attenzione alle critiche più costruttive e storicamente fondate.
Nel successivo viaggio messicano del 2012, il suo itinerario si fermò però alle regioni del cattolicesimo più sacramentale, evitando il profondo sud indigeno con le sue complessità umane e le sue domande controverse (a partire dal Chiapas, dove si sarebbe recato invece Francesco, cinque anni dopo).
L’America latina, nella sua composita pluriculturalità, restò sempre una realtà difficilmente comprensibile secondo gli schemi teologici del futuro papa. In qualche modo però quelle esperienze estreme, le violazioni sistematiche dei diritti umani, al pari dei temuti sincretisimi religiosi, intrisi in molti impianti devozionali latinoamericani, lo aiutarono a rimettere alla prova la solidità del suo impianto teologico e, forse, la sua stessa concezione dell’ecumenismo.
Pur ribadendo la centralità della lotta al relativismo, alcune reminiscenze preconciliari (a partire dalla tutela dell’amata messa in latino) e le sue resistenze alla teologia indigena, a differenza dei tradizionalisti più conservatori e settari, l’assolutista Ratzinger contemplava la necessità di un’analisi profonda dei problemi e delle questioni, ripartendo dal presupposto della possibilità di un confronto e dell’instaurazione di un dialogo critico, a partire dai temi per lui centrali della fede e della tolleranza (si veda Fe, verdad y tolerancia, Sígueme, 2005).
Il rapporto di Ratzinger con l’America latina restò dunque incompiuto e irrisolto ma non banale né tanto meno insignificante, anche se la successione di Francesco ne avrebbe, indirettamente, richiamato l’importanza latente e, in qualche modo ineludibile, per il futuro stesso delle istituzioni cattoliche.
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