«Yo siempre prefiero algo malo que algo pésimo». La dichiarazione di voto dell’ex Presidente Michelle Bachelet descrive meglio di qualsiasi altra fotografia il clima che si respirava in Cile domenica scorsa, quando nel paese si è tenuto un referendum che ha stabilito che resterà in vigore la Costituzione nata durante la dittatura.

La scelta infatti era tra il male e il peggio. Ovvero tra questa anomalia (quella cilena è l’unica democrazia ad aver conservato intatto, nonostante alcuni aggiustamenti, un impianto costituzionale generato da un regime antidemocratico come quello di Pinochet) e un progetto di riforma della legge fondamentale dello stato, formulato da esponenti dell’ultradestra, che avrebbe consegnato al Cile una legislazione ancora più retrogada e reazionaria, mettendo in discussione anche i diritti già garantiti.

Qualche esempio? La privatizzazione della sanità sarebbe entrata in Costituzione; il diritto di sciopero avrebbe subìto nuove limitazioni; coloro che si sono macchiati di crimini contro l’umanità durante il regime militare avrebbero ottenuto un’amnistia.

E per i diritti delle donne si sarebbe assistito a «un gigantesco passo indietro» con l’annullamento dell’attuale legge sull’aborto - varata solo nel 2017 e già manchevole, visto che consente l’interruzione di gravidanza esclusivamente in tre casi (pericolo per la vita della gestante, patologia del feto incompatibile con la vita o gravidanza provocata da violenza sessuale).

Con la vittoria del «no» a questo progetto costituzionale, che si è imposto con un netto 55,7 per cento, i partiti progressisti possono tirare quindi un sospiro di sollievo. Ma allo stesso tempo si è infranto il sogno di recidere finalmente quel cordone ombelicale - ovvero la Costituzione del 1980 - che a distanza di cinquant’anni dal Golpe continua a legare il Cile alla dittatura.

Tomas Hirsch, deputato cileno e leader di Acción Humanista, partito della sinistra femminista ed ecologista, sa come tutti, dalle parti de La Moneda, che il paese ha perso una grande opportunità di cambiamento.

Un cambiamento che appena cinque anni fa sembrava del tutto a portata di mano, spinto da un forte impulso dal basso, genuinamente popolare, che generò il cosiddetto Estallido social - un’esplosione sociale - contro il carovita e la corruzione.

Occasione persa

Ma occorre fare i conti con la realtà odierna: «Bisognerà aspettare un altro “momento costituente”. Quando sarà? Non lo sappiamo». L’unica cosa certa, conclude, è che «non sarà ora nè nei prossimi anni».

D’altra parte anche il Presidente più a sinistra dai tempi di Allende, Gabriel Boric, era già stato molto chiaro in questo senso: il 17 dicembre, a prescindere dal risultato, il dibattito sulla costituente cilena avrebbe subito una battuta d’arresto.

Perchè a distanza di 1500 giorni dall’inizio del processo, avviato nel 2020, nel Paese inziava già da tempo a prevalere una certa stanchezza, o disaffezione, nei riguardi della riforma costituzionale. Anche perchè, nel mezzo, la crisi economica si faceva sempre più stringente e i livelli di insicurezza sociale crescevano; la prima bozza di Costituzione, che era considerata «la più progressista del mondo» e che in qualche modo portava la firma di Boric, era stata bocciata al referendum del 4 settembre 2022 mentre un anno più tardi gli ultraconservatori vincevano le elezioni (quelle che designavano l’assemblea incaricata di redigere una nuova proposta, quella più “nera”, oggetto del plebiscito di domenica scorsa).

Senza contare il contesto generale, con la recente vittoria di Javier Milei nella vicina Argentina, dalla quale è molto semplice attendersi un impatto importante sull’intera America Latina.

E quindi, in questi ultimi anni, tutti i segnali sembravano indicare che per il governo cileno non tirasse una buona aria e che fosse necessario sganciare al più presto l’Esecutivo dalle sorti del processo costituzionale.

Il punto di ripartenza, adesso, è quindi una vittoria amara e senza applausi che tuttavia permette alla sinistra di respirare visto che il trionfo del «no» apre un conflitto tutto interno alla destra con il Partito Repubblicano di José Antonio Kast (cospirazionista e xenofobo, «il Donald Trump cileno») che deteneva la maggioranza del Consiglio costituzionale incaricato di formulare la nuova proposta, ora costretto a riconoscere la sconfitta e il fallimento del suo progetto di riforma.

Il ruolo della pandemia

«Nell’ultimo decennio la stragrande maggioranza del paese ha chiesto migliori condizioni di vita - spiega ancora Tomas Hirsch - e ha chiesto che la sanità e l’istruzione siano garantite indipendentemente dalle risorse economiche di ognuno; c’è poi una crisi totale del sistema pensionistico, il mancato riconoscimento a livello costituzionale delle comunità indigene, nessuna attenzione verso l’ambiente, un centralismo asfissiante. L’elenco delle criticità è lungo ed è per questo che nel 2019 si è verificata una rivolta sociale che si è tradotta nel tentativo di dotarci di una nuova Costituzione che fosse frutto di un processo democratico. Siamo invece finiti a votare un testo peggiore rispetto a quello in vigore dai tempi della dittatura».

Come è stato possibile che una così forte spinta popolare si sia esaurita senza riuscire a raggiungere un risultato concreto? «Lottiamo per una nuova Carta da decenni tuttavia il movimento nato nel 2019 aveva rappresentato un catalizzatore unico per questa battaglia».

Ma si è disperso per una serie di ragioni tra le quali una molto pratica, l’arrivo della pandemia che ha spento le proteste di piazza, e una che secondo Hirsch è stata particolarmente impattante: la campagna di disinformazione cavalcata dalle destre - «non avevamo mai assistito prima a una così estrema manipolazione dell’informazione e non eravamo ancora attrezzati per gestirla». Il risultato è che la rivoluzione cilena rimane incompiuta ma, conclude Hisrsh, «non serve solo una nuova Costituzione, serve una buona Costituzione, attraverso la quale superare non alcuni articoli ma un modello che ha già creato così tanta ingiustizia in Cile».

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