La settimana che è appena cominciata avrà un posto nei libri di storia del Regno Unito, ma purtroppo non fra i momenti da celebrare. E la Brexit, tutt’altro che archiviata, ne è la causa principale. Anzi, più che dar inizio a una nuova era di opportunità e prosperità come sbandierato dall’omonimo (e inutile) ministero ad hoc creato nell’ultimo rimpasto da Boris Johnson, la Brexit sembra piuttosto far retrocedere il paese alle rogne dei secoli scorsi, declassandolo al rango di paria internazionale.

Capitolo Brexit

Lunedì scorso 13 giugno il governo ha presentato la nuova legislazione che sospende in modo unilaterale il protocollo nordirlandese, parte degli accordi sull’uscita dall’Unione Europea stipulati soltanto 2 anni fa dallo stesso Johnson. Criticata dall’associazione degli industriali, da tutte le opposizioni e da una ampia maggioranza di nordirlandesi, la nuova normativa annulla tutti i controlli sulle merci che entrano in Nord Irlanda, dando vita a un canale speciale ‘verde’.

Ad un altro canale ‘rosso’ saranno destinati pochissimi prodotti ancora sottoposti ai controlli doganali europei. Una radicale inversione a “u” insomma rispetto al protocollo nordirlandese che prevedeva, invece, che il Nord Irlanda rimanesse dentro il mercato unico e che il confine tra Regno Unito e Unione europea fosse tracciato nel mar d’Irlanda. La più che prevedibile risposta dell’Unione Europea all’escalation di Downing street non si è fatta attendere e dopo le ripetute denunce del primo ministro irlandese che accusava come la proposta di legge inglese stesse mettendo a rischio il processo di pace in Nord Irlanda, mercoledì 15 giugno il vicepresidente della commissione Maroš Šefčovič ha fatto sapere che seguiranno azioni legali da parte di Bruxelles.

Praticamente, il governo conservatore ha deciso di non adempiere a un accordo internazionale sottoscritto volontariamente. A meno di due anni dall’entrata in vigore. L’ultima volta che Londra si era bellamente infischiata di un trattato che aveva firmato ponendosi deliberatamente al di fuori della legge internazionale era il 1956, a Suez, quando il paese era ancora formalmente un impero e un governo sempre guidato dai conservatori pensava di poter continuare a spadroneggiare nel Mediterraneo come se ancora corresse l’anno 1815.

Non è andata a finire bene e ci sono volute un paio di generazioni per riguadagnare il rispetto internazionale e un qualche potenziale di soft power. Se la nuova legislazione verrà confermata dal parlamento, e vista la maggioranza su cui si appoggia il governo Johnson non è da escludere, c’è da chiedersi quanto tempo occorrerà questa volta al Regno Unito per ritornare ad essere un attore internazionale affidabile.

Il piano migranti con il Ruanda

Ma non solo. La settimana è continuata con le ‘deportazioni’. Bloccato in extremis grazie all’intervento della Corte Europea dei diritti dell’uomo di cui il Regno Unito è ancora parte, martedì 14 giugno sarebbe infatti dovuto partire il primo volo per il Ruanda con a bordo sei richiedenti asilo ricollocati nel paese africano a seguito di un accordo con il governo di Kigali.

La legge per i richiedenti asilo approvata dal parlamento alla fine di aprile prevede infatti la “deportazione” nel paese africano – e non è questo un errore di traduzione: il verbo che viene utilizzato è esattamente “deportare” – il quale in cambio ha ottenuto una cifra astronomica per la gestione dei rifugiati. L’accordo è stato aspramente criticato non solo dall’opposizione laburista, dalle associazioni per i rifugiati, dai vertici di Whitehall e dall’arcivescovo di Canterbury, ma pure dall’erede al trono che in contravvenzione alla prassi costituzionale non ha per nulla smentito le voci di un suo forte dissenso.

LaPresse Copyright 2022 The Associated Press. All rights reserved

In altre parole, il governo inglese offre soldi in cambio di ‘movimentazione di essere umani presenti sul suo territorio. In questo caso, l’ultima volta che Londra era coinvolta ufficialmente in questo tipo di “commercio” era il diciannovesimo secolo, Jane Austen scriveva Orgoglio e Pregiudizio e non esistevano ancora i sindacati. Il verdetto definitivo sulla legalità delle “deportazioni” arriverà a luglio, e con tutta probabilità non decolleranno altri aerei fino a quella data. Ma la ratio retrograda e razzista segnata da questa legge è forse uno dei momenti più bui della politica inglese.

Il futuro dei conservatori

Spogliati entrambi gli episodi dal velo del linguaggio razionale con cui il governo tenta di presentarli – semplici cambiamenti burocratici li ha definiti sfacciatamente il primo ministro – questo è infatti uno dei momenti più bassi della storia inglese moderna. Basso anche per i recenti standard, alquanto infimi, dei conservatori.

E all’origine di questa incredibile involuzione politica e morale c’è la decisione di uscire dall’Ue senza avere un’idea chiara su come gestire le conseguenze non solo in termini di relazioni commerciali e diplomatiche, ma soprattutto come far rientrare nel quadro della convivenza democratica quel cumulo di ostilità verso l’altro e lo straniero su cui il discorso pubblico della Brexit si è alimentato.

A poco più di una sola settimana dal voto di fiducia che lo ha sì riconfermato leader, ma che certificando la mole della sua opposizione interna ha anche messo una pesante ipoteca sul futuro del suo governo, Johnson ha deciso dunque di rilanciare quella che ormai è una carriera politica decotta con un “me ne frego” globale, mettendo nel giro di due giorni il Regno Unito fuori dalla ragione democratica e dalla propria storia politica.

L’obiettivo di breve corso è quello di racimolare alle prossime elezioni suppletive del 23 giugno più voti possibili a destra, sempre più a destra in quell’elettorato sfaticato e umorale che reagisce pavlovianamente soltanto a urti teatrali e che non può più essere catalizzato del verbo della Brexit. Non secondario anche il fatto che il governo Johnson ha bisogno di far dimenticare i motivi per cui si torna a votare nei collegi nello Yorkshire e in Devon: entrambi i due seggi erano in mano a due conservatori costretti alle dimissioni dopo essere stato scoperto a guardare un video porno in aula, nel caso di Neil Parish, e condannato per molestie sessuali nei confronti di un quattordicenne, nel caso di Ahmad Khan.

AP

È difficile indicare quale delle due legislazioni avrà le ricadute più tragiche. Se la rottura degli accordi internazionali sul confine nel Nord Irlanda, che ha spinto Londra nell’illegalità internazionale e rischia di recare un danno irrimediabile alla reputazione britannica con effetti economici negativi ancora incalcolabili. Oppure se il ritorno a pratiche che non possono che essere definite coloniali e che segnano la deliberata abdicazione ad essere un paese democratico e tollerante.

Per non parlare del fatto che Downing street non ha neppure escluso di abbandonare la Corte europea dei diritti dell’uomo, un’istituzione che Londra stessa ha contribuito a creare nel 1959 e che si va ad aggiungere al già avvenuto ritiro dalla Corte di giustizia europea. Ed è forse ancora più difficile immaginare quali saranno le conseguenze politiche e sociali in un paese che si sta avviando verso quella che sembra diventare una crisi economica di notevole portata.

Di una cosa oggi purtroppo siamo certi: siamo solo all’inizio del conto dei danni che la Brexit sta producendo.   

© Riproduzione riservata