Deve essere stato organizzato con poco preavviso il discorso pronunciato lunedì mattina dal leader del partito laburista Keir Starmer, vista la poca copertura mediatica che ha ricevuto. Eppure, quello di martedì a Chatham House – fra i più prestigiosi think tank inglesi di questioni internazionali – è sicuramente uno degli interventi più delicati e importanti che Starmer abbia dovuto fare sinora.
Dopo settimane di malumori dentro il partito, copiose dimissioni di amministratori locali e militanti, esplicite critiche da parte di ben 13 membri del suo “governo ombra”, nonché aperta opposizione di due star come i sindaci di Manchester e di Londra, Starmer ha tentato di riprendere in mano la narrazione e di spiegare le ragioni del suo fermo sostegno a Israele. Una posizione che si è di poco spostata dopo tre settimane di assedio e migliaia di morti civili.
Quello di Starmer è un “filo-israelismo” impetuoso, certamente spinto dalla gravità dei fatti del 7 ottobre ma che è risultato incomprensibile a un’opinione pubblica abituata alla complessità politica del Medio Oriente e, soprattutto, ancora più arduo da far accettare a un elettorato multietnico: ben 20 dei collegi elettorali rappresentati dal partito laburista a Westminster è a maggioranza musulmana.
La sfortuna di Starmer
Nel suo breve discorso Starmer ha confermato che il Labour non sostiene il “cessate il fuoco” nella striscia di Gaza, cercando di razionalizzare invece la richiesta di una “pausa umanitaria” per concedere il tempo dell’evacuazione e l’arrivo di aiuti alla popolazione.
Il cessate il fuoco, ha spiegato, congelerebbe il conflitto e non sosterrebbe il processo di pace. Non è questo lo slogan banale di Rishi Sunak – «noi vogliamo che Israele vinca la guerra» – ma non è nemmeno una profonda comprensione della questione israelo-palestinese.
Starmer è stato senza dubbio sfortunato: l’attacco di Hamas ha coinciso con la conferenza del Labour. Il conflitto Gaza-Israele e la durezza mostrata da entrambe le parti hanno completamente trasformato il contesto e quello che avrebbe dovuto essere un autunno galvanizzato dalle promesse di una vittoria elettorale più o meno imminente, è diventato ancora una volta il reality show delle fratture profonde nell’universo ampio della sinistra britannica. Una situazione non diversa da quelle delle altre “sinistre europee”, compresa quella italiana, ma che nel Regno Unito risulta ancora più stridente.
Il paradosso dei sondaggi
Certamente, la posizione di Starmer può essere spiegata dalle accuse, non importa qui quanto infondate, di antisemitismo fatte al partito durante la leadership di Jeremy Corbyn. Innegabilmente, la sua reazione è stata eccessiva, facendo esattamente riemergere quel ginepraio che sperava di avere definitivamente sradicato. Episodi di antisemitismo e islamofobia diventano sempre più frequenti, aizzando una triste corsa al rialzo dove il confine fra critica politica e odio ideologico diventa sempre più labile.
Ma la “cautela” di Starmer deve anche essere compresa nel paradosso registrato dagli ultimi sondaggi: mentre nel suo elettorato la critica insorge, i sondaggi danno il partito di ben 17 punti avanti ai conservatori. Sembra quindi non ci sia nulla che possa fermare la “quieta” avanzata del Labour.
E onestamente non si vede proprio davvero cosa possano fare i conservatori per uscire da quel monumentale mare di melma in cui si sono infilati da soli. Il parlamento, tuttavia, non sarà sciolto molto presto e nel lungo periodo il rischio che il Labour si perda quello che è sempre stato il suo elettorato storico potrebbe concretizzarsi spingendo alcuni a non votare.
Ma in una prospettiva più ampia, l’impasse in cui si trova suo malgrado Starmer, investito di aspettative ma ancora privo di poteri, illustra quanto le democrazie contemporanee siano in crisi e debbano essere recuperate nel quadro della separazione dei poteri e dell’equilibrio istituzionale.
Il parlamento può essere sciolto soltanto dal primo ministro e, come hanno ampiamente dimostrato i conservatori, soltanto la scadenza naturale può schiodare un partito che “aveva” una maggioranza nel paese ma che resiste fino all’ultimo prima di tornare a sondare se quella maggioranza esista ancora. E magari anche qualche riflessione sulla proposta del premierato che si va facendo in Italia in questi giorni andrebbe fatta.
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