Non c’erano mai stati così tanti reporter in prigione dal 1995. Dalla Bielorussia al Vietnam, dalla Cina al Myanmar: il racconto di chi è in carcere in nome della libertà di stampa
Mai così tanti giornalisti e giornaliste detenute dal 1995. È il dato più allarmante che emerge dal report di quest’anno di Reporter senza frontiere, l’organizzazione no profit che promuove la libertà d’informazione nel mondo.
Oltre a stilare un ranking sul posizionamento delle nazioni rispetto alla libertà di stampa, Rsf pubblica un report annuale che fa il punto sulle morti e le detenzioni delle giornaliste e dei giornalisti nell’anno appena trascorso.
Allo stato attuale, sono 448 i reporter attualmente incarcerati nel mondo: la cifra più alta da quando Rsf ha iniziato a stilare il suo report, nel 1995. E in aumento del 20 per cento rispetto al 2020.
I cinque paesi con più giornalisti in prigione sono Cina (127), Birmania (53), Vietnam (43), Bielorussia (32) e Arabia Saudita (31). Mentre gli uomini rappresentano ancora l’87,7 per cento dei giornalisti incarcerati, è un record negativo anche il numero di giornaliste detenute: sono 60, un terzo in più rispetto al 2020. In Bielorussia sono state più le giornaliste (17) a essere incarcerate, rispetto ai colleghi uomini (15).
Messico e Afghanistan i paesi in cui si muore di più
È invece in diminuzione il numero di giornalisti uccisi – la cifra più bassa degli ultimi 20 anni – anche se restano comunque 46. Bisogna però tener conto della particolarità dell'anno trascorso: il Covid ha limitato i reportage, e quindi i rischi. Il dato riflette però anche la stabilizzazione di alcuni conflitti in Medioriente, in particolare in Siria, Iraq e Yemen, i cui fronti erano stati particolarmente letali per i giornalisti.
Messico e Afghanistan restano i due paesi in cui si muore di più: contano rispettivamente 7 e 6 morti, seguiti da Yemen e India al terzo posto, con 4 giornalisti uccisi ciascuno. Anche la quota di giornaliste donne è aumentata, con 4 uccise nel 2021 contro le 2 dell'anno scorso. Il 65 per cento dei reporter uccisi viene «consapevolmente preso di mira ed eliminato», si legge nel report.
Rsf aveva già raccontato come sia stata la Cina in particolare a condurre una «campagna di repressione senza precedenti» contro il giornalismo. La repressione nello Xinjiang contro i giornalisti della minoranza musulmana uigura (70 imprigionati) con il pretesto di combattere il terrorismo; la legge sulla sicurezza nazionale imposta a Hong Kong che ha limitato la libertà di espressione nel territorio; e la pandemia che ha ulteriormente deteriorato la libertà d’informazione in Cina, con decine di giornalisti che sono stati arrestati per aver riferito di vicende legate al Covid e al focolaio di Wuhan.
Le storie di chi ha perso la libertà
A Hong Kong l’unico giornale dissidente rimasto, l’Apple Daily, ha chiuso nel giugno scorso. Molti dei suoi giornalisti sono finiti dietro le sbarre, così come il suo fondatore ed editore, Jimmy Lai, accusato – tra le altre cose – di aver partecipato a una veglia non autorizzata in ricordo della strage di piazza Tienanmen. «Se commemorare coloro che sono morti a causa dell'ingiustizia è un crimine – ha detto – allora infliggetemi la pena e lasciatemela scontare, in modo che io possa condividere il peso e la gloria di questi giovani uomini e donne che hanno versato il proprio sangue il 4 giugno».
L’ex avvocata cinese Zhang Zhan è stata giudicata colpevole di «aver raccolto litigi e provocato problemi», per aver raccontato la realtà delle strade e degli ospedali di Wuhan nel febbraio 2020.
In Bielorussia le proteste contro il regime di Lukashenko, accusato di aver truccato le elezioni dell’agosto 2020, hanno portato a un’incarcerazione di massa di attivisti, giornalisti e comuni cittadini e cittadine.
Katerina Bakhvalova, 27 anni, e Daria Chultsova, 23, sono state condannate a due anni di carcere ciascuna per aver filmato delle proteste a novembre. Dalla gabbia in cui erano chiuse durante il processo hanno salutato i fotografi portando le dita in segno di vittoria.
Il giornalista d’opposizione bielorusso Roman Protasevich e la fidanzata Sofia Sapega sono stati arrestati nel maggio 2021 per «atti di terrorismo», ovvero aver partecipato a delle proteste contro Lukashenko. Per arrestarli, il regime ha fatto dirottare un volo di Ryanair.
Il blogger e social media manager Ihar Losik è stato arrestato dalla polizia bielorussa nel giugno 2020. Lo scorso 14 dicembre è stato condannato a 15 anni di carcere. In prigione ha già condotto diversi scioperi della fame e tentato il suicidio.
La giornalista vietnamita Pham Doan Trang è stata arrestata nell’ottobre 2020 e condannata a nove anni di prigione per «propaganda contro lo stato». Il giudice le ha detto che è un pericolo per la società. Lasciando l’aula del tribunale, ha urlato alla madre: «Prenditi cura della tua salute, ti voglio bene. Non ho paura».
In Myanmar, il fotografo freelance Soe Naing è morto il 14 dicembre a seguito della violenza usata su di lui durante un interrogatorio dei militari, che lo avevano arrestato quattro giorni prima. Con lui sono stati arrestati altri giornalisti, ancora detenuti.
Soheil Arabi, Mehrnoush Tafian, Narges Mohammadi: sono molti i giornalisti e le giornaliste in carcere nelle prigioni iraniane, accusate a vario titolo di sovversione e propaganda anti-governativa per aver svolto il proprio lavoro. Farangis Mazloom, la madre del giornalista Soheil Arabi, è stata condannata al carcere per aver allertato l’opinione pubblica riguardo le condizioni in cui si trovava il figlio in prigione – ferito, torturato, tenuto in uno stato degradante.
Nuove relazioni di potere
Nell’anno in cui è stato assegnato a due giornalisti – il russo Dmitry Muratov e la filippina Maria Ressa – il premio Nobel per la pace, le storie di soprusi e violenze contro i reporter sono in aumento. Come spiega il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, questa evidenza è «un riflesso del rafforzamento del potere dittatoriale in tutto il mondo, la mancanza di scrupoli da parte di questi regimi».
C’è anche, però, il rischio che siano lo specchio di «nuove relazioni di potere geopolitico, in cui i regimi autoritari non sono sottoposti a pressioni sufficienti per spingerli a frenare le loro repressioni».
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