Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan entro l’11 settembre, venti anni dopo l’attentato alle Torri gemelle, lascerà un vuoto di potere che altre forze si affretteranno a occupare. A livello interno ciò che si teme maggiormente è il ritorno al potere dei talebani, quegli stessi combattenti identificati per anni dagli Stati Uniti come terroristi e invitati adesso ai tavoli dei negoziati per la ricostruzione politica di un paese che hanno contribuito a distruggere. Ma proprio i colloqui di pace saranno importanti non solo per stabilire che tipo di governo si insedierà a Kabul e quanto peso avrà la religione nel futuro assetto socio-politico dell’Afghanistan, ma anche per capire quali potenze straniere riusciranno a imporre i propri interessi nell’era post-bellica, prendendo il posto degli Stati Uniti.

Ecco allora che lo sdoppiamento della sede degli incontri tra i talebani e il governo di Kabul, guidato dal presidente Ashraf Ghani, assume una certa rilevanza. I primi colloqui di pace si sono svolti a settembre del 2020 a Doha, in Qatar, mentre i prossimi, previsti dopo la fine del mese sacro del Ramadan, si terranno a Istanbul, in Turchia. L’entrata in scena di Ankara nella questione afghana risale ufficialmente a marzo, ma il paese anatolico vanta da tempo forti legami con i diversi attori attivi nel paese asiatico e ha di recente celebrato cento anni di relazioni diplomatiche con Kabul. L’Afghanistan era in buoni rapporti già con l’Impero ottomano ed è stato il secondo paese a riconoscere nel 1921 quella che sarebbe diventata la Repubblica di Turchia con un trattato di amicizia. Nello specifico, il governo turco riscuote successo sia tra i talebani, sia tra l’Alleanza del nord, da cui ha origine l’attuale governo di Kabul, e può contare anche su buoni rapporti con le tribù capeggiate dal presidente Ghani, dall’ex capo di stato Hamid Karzai e da Abdullah Abdullah, capo del Consiglio nazionale per la riconciliazione, nonché con la componente uzbeka di origine turchica guidata dall’ex vicepresidente Rashid Dostum. Quest’ultimo ha anche trascorso un periodo di esilio in Turchia, dopo essere stato accusato di aver ordinato il rapimento e l’aggressione di un suo rivale politico, ed è considerato particolarmente vicino ad Ankara e agli interessi turchi.

Ma oltre ai legami con le diverse fazioni politiche, la Turchia può anche contare sulla presenza in Afghanistan delle sue truppe fin dal 2001 all’interno della missione Nato international security assistance force prima e della Resolute support poi. A spingere la Turchia a proseguire con la missione Nato sono stati gli attentati che nel novembre 2003 colpirono Istanbul e attribuiti ad al Qaida, i cui legami con i talebani sono all’origine della stessa invasione americana dell’Afghanistan. L’invio di truppe in un paese musulmano aveva inizialmente causato dei problemi di immagine al governo turco, soprattutto a livello interno, ma Ankara è stata ben attenta al ruolo che le sue forze avrebbero ricoperto: nonostante le pressioni statunitensi, i soldati turchi si sono occupati di addestramento e protezione, evitando così lo scontro con le fazioni avverse al governo di Kabul.

A giocare in favore della Turchia nella questione afghana sono anche i rapporti con il Pakistan e il ruolo di mediatore svolto tra Kabul e Islamabad. Ankara ha dato vita nel 2007 al cosiddetto Processo di Istanbul, facendo sedere allo stesso tavolo le due parti e invitandole a discutere dei problemi legati ai rifugiati, alla definizione della linea Durand per la delimitazione del confine tra Pakistan e Afghanistan, e al terrorismo. Ma a legare Islamabad e Ankara sono anche i rapporti commerciali, principalmente nel settore militare, nonché il sostegno offerto da Erdogan al Pakistan nella sua rivendicazione del Kashmir, territorio a maggioranza musulmana conteso con l’India.

Il rapporto coi talebani

I legami con il Pakistan giocano a favore della Turchia anche nel suo rapporto con i talebani, quest’ultimo basato anche sul ruolo sempre più centrale che il presidente turco sta giocando all’interno della comunità islamica. Erdogan cerca da tempo di sottrarre all’Arabia Saudita la veste di leader del mondo musulmano, ponendosi quale difensore ultimo delle istanze dei fedeli islamici nel mondo. D’altronde la comune appartenenza religiosa è una delle leve della dottrina del neo-ottomanesimo, diventata la base della politica estera dell’Akp e del presidente Erdogan. Obiettivo ultimo è la trasformazione della Turchia da stato di periferia ad attore centrale nella definizione delle dinamiche regionali grazie anche al ruolo di mediatore tra oriente e occidente. Un ruolo che gli stessi Stati Uniti sembrano aver affidato ad Erdogan nella questione afghana, dato che la proposta di tenere dei colloqui di pace anche ad Istanbul è giunta proprio dal nuovo segretario di Stato americano, Antony Blinken.

Grazie al suo coinvolgimento nel processo di pace afghano, Erdogan può quindi aumentare la propria influenza in Asia centrale e dimostrarsi ancora una volta un utile alleato per gli Stati Uniti e la Nato. Come già successo in Ucraina e in Libia, quindi, la Turchia potrebbe ora ricoprire un ruolo importante anche in Afghanistan, rendendo così sempre più indispensabile il dialogo e la cooperazione tra l’occidente e un presidente che Mario Draghi ha definito un «dittatore». Un dato che dovrebbe far riflettere sulla legittimazione che Erdogan continua a ricevere da quegli attori internazionali che pur criticandone le politiche repressive adottate in patria e le velleità in politica estera sono disposte a sfruttarne la capacità di intervento in conflitti in cui non vogliono più essere invischiati.

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