Icona femminista, mente legale raffinatissima e «migliore amica» dell’avversario conservatore Scalia, R.B.G. era uno di quei rari personaggi che passano direttamente dalla cronaca alla leggenda. La scomparsa offre a Trump un’arma per rivitalizzare la campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre
- La giudice della Corte suprema americana e icona femminista Ruth Bader Ginsburg è morta ieri nella sua casa di Washington. Aveva 87 anni, ed era membro della corte dal 1993. Era la leader de facto della minoranza liberal.
- È stata la seconda donna ad arrivare alla massima corte americana, dopo Sandra Day O’Connor, e per tutta la carriera si è battuta per i diritti delle donne. Negli ultimi anni è diventata un’icona pop con il soprannome di Notorius R.B.G.
- La sua scomparsa apre uno scenario complicato in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il capo dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha fatto sapere che ha intenzione di portare in aula un nome prima della scadenza del mandato di Donald Trump.
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La giudice della Corte suprema americana e icona femminista Ruth Bader Ginsburg è morta ieri nella sua casa di Washington, a causa delle complicazioni di un tumore al pancreas.
Aveva 87 anni. Ginsburg, che è stata la seconda donna ad arrivare alla Corte suprema, dopo Sandra Day O’Connor, ha combattuto a lungo e con incredibile tenacia con i gravi problemi di salute che l’hanno afflitta a partire dal 1999, quando è guarita da un cancro al colon. Le è stato poi diagnosticato un tumore al pancreas allo stadio iniziale, e due anni fa, dopo una caduta che le ha procurato la rottura di due costole, i medici hanno scoperto due tumori ai polmoni.
Per via dell’età e delle precarie condizioni di salute, negli ultimi anni molti le hanno caldamente suggerito di andare in pensione, e le voci di un suo possibile ritiro si sono intensificate negli gli ultimi anni della presidenza di Barack Obama.
Se si fosse fatta da parte allora – era il calcolato ragionamento dei suoi alleati – il presidente democratico avrebbe avuto la possibilità di nominare un terzo giudice, dopo Sonia Sotomayor ed Elena Kagan, due donne, assicurandosi di non lasciare a un suo eventuale successore repubblicano la possibilità di rimpiazzare la leader de facto del comparto liberal della corte, che si trova da tempo in minoranza. Cosa che è invece avvenuta.
Ginsburg ha sempre detto che sarebbe rimasta al suo posto «finché potrò fare il mio lavoro a pieno regime», e così ha fatto.
La giudice minuta e ricurva sotto il peso degli anni e della malattia era l’immagine della fragilità, ma ha avuto fino all’ultimo forza e capacità di lavoro portentose.
Le sue giornate iniziavano la mattina presto con un’ora di palestra (il suo personal trainer ha anche scritto un libro sulla sua routine di allenamento) e finivano la sera tardi con lo studio minuzioso dei casi e la stesura delle opinioni, che scriveva con uno stile tagliente e denso di ironia, per molti versi simile a quello del giudice conservatore Antonin Scalia, morto nel 2016, che era nel punto più lontano dello spettro ideologico rispetto a lei, ma era anche uno dei suoi più grandi amici.
Nel commovente discorso funebre per Scalia, Ginsburg lo ha chiamato il suo «best buddy», e il loro rapporto ha lasciato tracce iconografiche memorabili.
È diventata un’icona l’immagine dei due in sella a un elefante durante un viaggio in India. «Alcune sue amiche femministe mi hanno criticato perché lei era seduta dietro di me sull’elefante», ha scherzato Scalia in un’intervista assieme all’amica. Lei lo ha interrotto ironizzando sul collega corpulento: «Il cocchiere ci aveva spiegato che era una questione di distribuzione del peso».
I due erano estremamente diversi sia sotto il profilo delle convinzioni politiche sia dal punto di vista della scuola interpretativa della Costituzione a cui facevano riferimento.
Ginsburg sosteneva che la carta andasse continuamente interpretata e rivista alla luce delle circostanze storiche, mentre Scalia era il rappresentante più eminente della sua generazione della scuola “originalista”: ricordava sempre che la Costituzione è un testo «morto, morto, morto» ed è stato perennemente in lotta contro l’attivismo di giudici che dovevano, a suo dire, limitarsi ad applicare il dettato costituzionale senza distaccarsi dal senso e dal contesto in cui erano stati originariamente concepiti.
Notorius R.B.G.
Ginsburg è stata nominata alla Corte suprema da Bill Clinton nel 1993 ed è stata la prima giudice, durante le udienze per la conferma al Senato, a prendere una posizione netta e inequivocabile sul diritto all’aborto: «È essenziale per l’uguaglianza della donna che abbia il controllo sulla sua scelta. Se vengono posti ostacoli alla sua scelta si discrimina a causa del sesso», ha detto.
A quel punto la poderosa battaglia per i diritti delle donne aveva già reso nota quella che nella metà degli anni Cinquanta era stata una brillante studentessa della scuola di legge di Harvard, un luogo allora piuttosto inaccessibile per le donne.
Quando un suo professore l’ha raccomandata per un posto da clerk con uno dei giudici “progressisti” della Corte suprema, Felix Frankfurter, questo ha rifiutato dicendo che non era ancora pronto per avere una donna nella sua squadra. Nel 1972 Ginsburg ha fondato e diretto il Women’s Rights Project dell’Aclu, la più importante associazione americana per la difesa dei diritti civili, e in quel ruolo ha condotto a gran voce le sue battaglie, proprio nella fase storica in cui tutto stava cambiando su quel fronte.
Con la sentenza Roe v. Wade del 1973 la Corte ha di fatto reso legale l’aborto negli Stati Uniti e Ginsburg, pur esultando per il risultato ottenuto, ha spesso criticato il modo in cui i giudici hanno costruito l’argomentazione legale.
La sentenza si poggia filosoficamente sul diritto alla privacy, mentre lei avrebbe preferito che il perno fosse l’uguaglianza.
Negli ultimi anni Ginsburg è diventata un personaggio pop globale. Nel 2015 una studentessa di giurisprudenza di nome Shana Knizhnik l’ha soprannominata Notorius R.B.G., un gioco di parole sul nome del leggendario rapper Notorius B.I.G., e il suo volto con una corona in testa leggermente pendente è diventata subito virale in rete.
L’armamentario di immagini di R.B.G., eroina del mondo liberal-progressista, si è immediatamente diffusa, ispirando libri, documentari, magliette, tatuaggi, meme. Ha scritto anche un libro illustrato per bambini, intitolato I dissent.
Lei ha sempre trattato con la giusta leggerezza questa sua assunzione nell’iperuranio della celebrità. Quando le chiedevano se la metteva a disagio il paragone con il rapper lei diceva che i due, anzi, avevano molte cose in comune: erano entrambi cresciuti a Brooklyn e amavano le collane vistose. Ma la collana vistosa della giudice era quella che indossava per mostrare all’esterno il suo dissenso rispetto a una decisione della Corte, e il dissent collar di Notorius R.B.G. è diventato immancabilmente un oggetto di culto per i suoi ammiratori.
Tutto questo ha contribuito a renderla una di quei rari personaggi che passano dalla cronaca direttamente alla leggenda, travalicando la storia.
Le mani di Trump sulla nomina
Alexander Hamilton ha scritto che nel sistema americano il potere giudiziario dovrebbe essere il più debole dei tre, perché «non ha influenza sulla spada e sulla borsa», perciò non ha «forza né volontà, e deve limitarsi al semplice giudizio». La storia è andata diversamente.
Nell’ultimo secolo la Corte suprema americana è diventata un luogo intensamente politicizzato che si è trovato a prendere, con forza e volontà abbondanti, decisioni cruciali su molti aspetti della vita del paese, dalla regolamentazione del lavoro all’aborto, dal finanziamento della politica alla libertà religiosa, fino al matrimonio gay e alla protezione dei diritti Lgbt. I giudici della corte sono ampiamente raccontati dai media e conosciuti dal pubblico: in Italia pochissimi saprebbero citare il nome di un giudice della Corte costituzionale senza chiedere a Google.
Il risultato pratico di questo percorso di iperpoliticizzazione è che quando muore un giudice non c’è nemmeno il tempo per un requiem: si passa immediatamente allo scontro. Il capo dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha detto che l’aula voterà il nome del successore prima della scadenza del mandato presidenziale (il prossimo presidente verrà eletto il 3 novembre, ma si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca soltanto il 20 gennaio del 2021). Il candidato democratico, Joe Biden, ha invece spiegato che gli americani «devono prima eleggere il presidente, e questo poi nominerà il giudice». I repubblicani hanno la maggioranza al Senato, quindi potrebbero procedere senza particolari ostacoli, ma gli schieramenti hanno un conto aperto.
Nel 2016, alla morte di Scalia, Obama ha contraddetto chi invocava una presunta prassi presidenziale di non nominare un giudice nell’ultimo anno del mandato: «Voglio compiere il mio dovere costituzionale di nominare un giudice della corte più alta», ha detto, proponendo il nome di Merrick Garland. Con una forzatura istituzionale inedita, i repubblicani, che avevano la maggioranza, hanno deciso di non considerare nemmeno il nome proposto dal presidente e hanno fatto ostruzionismo fino alla scadenza del mandato. Trump, una volta eletto, ha nominato Neil Gorsuch.
«But Gorsuch»
Sulla vecchia polemica del giudice che i democratici giudicano “rubato” dagli avversari si innesta una questione più strettamente elettorale. Quattro anni fa la promessa di nominare giudici di orientamento conservatore è stata importante per convincere fasce dell’elettorato repubblicano che non erano però affatto persuase dal profilo di Trump. Molti si sono turati il naso nell’urna dicendo fra sé quella che poi è diventata un’espressione comune per giustificare la condotta inaccettabile del presidente: «But Gorsuch». Tradotto: Trump sarà anche terribile, però almeno ha nominato una persona che condivide la mia visione del mondo nel luogo dove si prendono decisioni fondamentali.
Ora Trump ha l’occasione per riscaldare la stessa narrazione, con un elemento che la rende ancora più appetibile per gli elettori rispetto al passato: i due giudici che ha nominato finora (l’altro è Brett Kavanaugh, anche lui contestatissimo ma in circostanze completamente diverse) hanno sostituito due conservatori, cosa che non ha alterato la composizione della corte, che è da tempo sbilanciata a destra. Qui invece si tratta di sostituire una liberal, e non una liberal qualsiasi, ma l’idolo polemico dell’intero spettro repubblicano. È un’occasione che Trump non si lascerà sfuggire per ricompattare il fronte conservatore sfilacciato.
C’è tuttavia un limite in questo calcolo. La corte a maggioranza conservatrice negli ultimi decenni ha dato assi poche soddisfazioni all’elettorato conservatore, soprattutto sugli argomenti sociali ed etici che stanno a cuore agli evangelici e in generale a quella che viene chiamata “destra religiosa”. Si tratto ovviamente di aborto, matrimonio gay, libertà religiosa, questioni bioetiche e via dicendo. A conti fatti, la corte a maggioranza conservatrice ha avuto in questi anni per almeno tre volte la possibilità di rovesciare alcuni punti fondamentali della Roe v. Wade, ma non lo ha fatto.
La sentenza che ha legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso è stata scritta da Anthony Kennedy, conservatore nominato da Ronald Reagan, e giusto qualche mese fa Gorsuch ha votato a favore della sentenza storica che ha esteso i diritti della comunità Lgbt sul posto di lavoro. Altro che «but Gorsuch». Dunque, una maggioranza sulla carta conservatrice non garantisce affatto sentenze in quella direzione, ma questo non impedirà al presidente di cavalcare questa speranza per tentare di allargare il consenso.
Nella lista di oltre venti profili di potenziali giudici che l’Amministrazione ha aggiornato giusto qualche settimana fa i nomi più gettonati sono Amy Coney Barrett, giudice della corte d’appello federale ed ex professoressa all’università di Notre Dame, il giudice indiano-americano Amul Thapar, che è stato procuratore federale in Kentucky, lo stato del leader del Senato, il senatore Tom Cotton, gli ex avvocati dello stato Paul Clement e Noel Francisco, e la giudice cubano-americana Barbara Lagoa, la prima donna ispanica a sedere nella Corte suprema della Florida.
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