- L’analisi dell’Ispi: dare «impulso politico e diplomatico» alla coalizione di forze in Sahel. Il ministro degli esteri francesi, Jean-Yves Le Drian, ha riassunto e anticipato così gli obiettivi politici del governo francese in vista del summit del G5 Sahel.
- Il vertice sarà un appuntamento cruciale, di fronte ai segnali sempre più insistenti di una possibile riorganizzazione e del ridimensionamento dell’impegno militare francese nell’area saheliana.
- L’operazione Barkhane ha senza dubbio contribuito a circoscrivere la mobilità regionale dei gruppi armati, nonostante l’espansione delle attività insurrezionali nelle aree rurali del Liptako-Gourma e i segnali di destabilizzazione regionale.
Dare «impulso politico e diplomatico» alla coalizione di forze in Sahel. Il ministro degli esteri francesi, Jean-Yves Le Drian, ha riassunto e anticipato così gli obiettivi politici del governo francese in vista del summit del G5 Sahel – la struttura di coordinamento dei paesi della regione – che il 15 e 16 febbraio, a N’Djamena, traccerà un bilancio delle attività fin qui condotte. La Francia ha posto l’accento sul ruolo centrale degli attori saheliani e sulla necessità di imprimere nuovo slancio all’iniziativa politico-militare e diplomatica dell’organizzazione, attraverso la promozione di un’azione più incisiva sul piano dello sviluppo, e il rafforzamento della cooperazione regionale verso il Golfo di Guinea – dove i rischi di espansione delle attività jihadiste sembrano concreti – e il Nord Africa.
Il vertice tra i capi di stato di Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad, a cui il presidente Emmanuel Macron prenderà parte in videoconferenza, è considerato un appuntamento cruciale, di fronte ai segnali sempre più insistenti di una possibile riorganizzazione e del ridimensionamento dell’impegno militare francese nell’area saheliana.
Poco più di un anno fa, il vertice di Pau segnava l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra Parigi e le capitali saheliane. Da un punto di vista politico, il summit servì da strumento di rilegittimazione della presenza politica e militare della Francia in Sahel. La ‘convocazione’ dei presidenti africani nella regione francese dei Pirenei atlantici intendeva ottenere dai partner della regione un segnale politico, il riconoscimento della centralità della presenza francese e dell’importanza delle operazioni di controterrorismo condotte dai militari di Barkhane. L’esposizione dei leader africani avrebbe dovuto soprattutto mettere a tacere le allusioni complottistiche che accusavano la Francia di collusione con gli attori jihadisti per destabilizzare la regione e sfruttarne le risorse.
Sotto il profilo militare, il vertice di Pau ha sancito il potenziamento del dispositivo francese. I contingenti sono stati incrementati di 600 unità (da 4.500 a 5.100. L’Operazione Barkhane conta su mezzi aerei importanti: 3 droni reaper, 7 jet da combattimento, 22 elicotteri e aerei di trasporto tattico e strategico) e le attività militari sono state concentrate nella regione di confine tra Mali, Niger e Burkina Faso, il Liptako-Gourma. L’impegno militare francese, inoltre, è stato integrato nella cornice della Coalition pour le Sahel, fondata su quattro pilastri: rafforzamento delle capacità militari degli stati saheliani, lotta al terrorismo, ripristino dell’amministrazione statale nei territori e sviluppo.
L’operazione Barkhane ha senza dubbio contribuito a circoscrivere la mobilità regionale dei gruppi armati, nonostante l’espansione delle attività insurrezionali nelle aree rurali del Liptako-Gourma e i segnali di destabilizzazione regionale. Le attività condotte nel corso del 2020, anche grazie ai correttivi apportati a Pau, hanno prodotto l’eliminazione di figure centrali ai vertici dei network jihadisti in Sahel, a partire da Abdelmalek Droukdel, emiro di al-Qa’ida nel Maghreb Islamico, e Bah ag Moussa, uno dei principali capi militari di Jama'a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin' (JNIM), filiale qaedista nel Sahel centrale. Gli obiettivi militari recentemente conseguiti da Barkhane e rivendicati dalla ministra della difesa, Florence Parly, pesano sulla bilancia dei rapporti con i partner regionali ed europei, cui si richiede un più ampio e diretto coinvolgimento nelle dinamiche della crisi perché “quella contro il terrorismo non è solo una guerra della Francia, ma è una guerra dell’Europa e dei suoi alleati”. Nonostante i successi tattici registrati negli ultimi mesi, infatti, i costi politici ed economici – oltre un miliardo di euro nel 2020, il 76 per cento della spesa pubblica per operazioni militari – dell’Operazione Barkhane restano importanti, e le vittime del conflitto – cinquantuno soldati francesi uccisi dal 2013 – difficili da giustificare davanti all’opinione pubblica.
Il disimpegno di Barkhane nel breve e medio periodo è del tutto improbabile, ma un parziale adeguamento della strategia sul terreno è considerato necessario. Dovrebbe tradursi nel ritiro dei contingenti addizionali dispiegati a inizio 2020 e nel rafforzamento delle operazioni di remote warfare, riducendo il peso di missioni classiche tramite il ricorso potenziato a intelligence, forze speciali, droni. In queste dinamiche risiede la principale chiave di lettura delle pressioni diplomatiche esercitate dalla Francia sugli alleati europei per la partecipazione alla task force Takuba, unità di forze speciali con compiti di addestramento, assistenza e supporto alle forze armate locali nella lotta ai gruppi jihadisti. Ed è in questa direzione che trovano riscontro gli sforzi per la responsabilizzazione della Force Conjointe del G5 Sahel, parte del meccanismo di comando congiunto delle operazioni militari.
Se l’uccisione di diversi leader jihadisti ha segnalato un cambio di passo nelle operazioni militari in Sahel – centoventotto operazioni di combattimento condotte e diverse centinaia di combattenti jihadisti uccisi nel 2020 – il bilancio della presenza francese nella regione in termini di consenso sociale, dal 2014 ad oggi, è contrastato e profondamente discusso. Un primo, fondamentale, elemento è dato dalle accuse di ingerenza nelle scelte politiche e strategiche degli attori statali in Sahel. Il limitato margine decisionale dei governi saheliani rispetto alla possibilità di negoziare una soluzione politica alla crisi, aprendo canali di dialogo con gli insorti jihadisti, dipende in larga parte dalla contrarietà dell’Eliseo, nonostante il consenso sempre più diffuso che l’opzione negoziale registra tra gli attori politici e sociali in Mali e Burkina Faso. Se a Pau la posizione francese appariva sfumata, e non escludeva esplicitamente che il dialogo con i gruppi legati allo Stato Islamico – lasciando aperto uno spiraglio ai jihadisti legati ad al-Qa’ida – le recenti indicazioni ai partner saheliani sulla preclusione al dialogo con i ‘terroristi’ sembrano invece più nette, benché le alte autorità militari sottolineino come la decisione “spetti ai politici maliani”.
In secondo luogo, l’incapacità del dispositivo militare di garantire la sicurezza dei civili di fronte alle violenze armate dei gruppi salafiti-jihadisti, delle milizie di auto-difesa, degli eserciti nazionali si riflette nel crescente risentimento delle popolazioni locali nei confronti delle forze francesi. Al di là di narrazioni spesso prive di fondamento, gli ‘effetti collaterali’ delle attività di controterrorismo in Sahel – soltanto poche settimane fa, Barkhane è stata accusata di aver bombardato i partecipanti a un matrimonio in un villaggio nel centro del Mali, nell’ambito di un’operazione di controterrorismo che ha causato 19 vittime – recano un duro colpo alla legittimità di Parigi nell’area e aggravano il peso politico dell’impegno francese. È anche in questi aspetti che si ritrova l’urgenza di un parziale disimpegno.
Leggi anche:
- Le guerre senza fine in Africa fra realtà e percezione
-
Il sogno dello stato islamico rinasce dalla sabbia del Sahel
© Riproduzione riservata