La linea dura di Francesco sugli abusi non basta ai critici australiani. Non hanno digerito l’assoluzione di Pell. I diari dal carcere del cardinale
- In Australia il papa è stato citato davanti alla Corte suprema per espiare le colpe di padre Michael Glennon, sacerdote condannato per abusi dal 1978 e ridotto allo stato laicale con 20 anni di ritardo.
- Ma è giusto pretendere che, in virtù del suo primato sulla chiesa cattolica, il papa sia ritenuto il diretto responsabile di fatti avvenuti negli anni Novanta in una chiesa particolare?
- L’approccio che papa Francesco ha impresso al problema mostra che la richiesta di giustizia è doverosa. Ma il Vaticano, come mostrano i casi australiani, si trova a fronteggiare le continue richieste di teste di porporati in nome di una presunta giustizia che finisce per picconare l’autorità della chiesa stessa.
Per alcuni l’attuale politica di tolleranza zero della Santa sede nei casi di abusi da parte di preti e religiosi in tutto il mondo non è sufficiente: è necessario un “repulisti” totale, come contrappasso doveroso a un passato di negligenza e inazione.
È quanto sta avvenendo in Australia: per la prima volta, davanti alla Corte suprema dello stato di Victoria sono stati citati in giudizio papa Francesco, l’arcivescovo di Melbourne, Peter Comensoli, e l’arcidiocesi. Una triade scelta per espiare le colpe di padre Michael Glennon, sacerdote condannato per abusi dal 1978. Il caso di Glennon, ridotto allo stato laicale soltanto vent’anni dopo la prima condanna, reitera una vecchia e dolorosa consuetudine, fatta di silenzi e ritardi. Oggi la chiesa cattolica non nega le sue colpe sulla mancata tempestività di alcuni provvedimenti, e lo dimostra anche il rapporto recentemente pubblicato sull’ex cardinale americano Theodore McCarrick.
Ma per i legali delle tre vittime di Michael Glennon, che nel 1991 erano minorenni, i vertici della chiesa sarebbero stati al corrente della sua condotta e non avrebbero agito. Questo sarebbe sufficiente per una denuncia e un adeguato risarcimento per «fare in modo che il papa e il Vaticano accettino le proprie responsabilità », ha spiegato al Sidney Morning Herald l’avvocata Angela Sdrinis.
Ma è giusto pretendere che, in virtù del suo primato sulla chiesa cattolica, il papa sia ritenuto il diretto responsabile di fatti avvenuti negli anni Novanta in una chiesa particolare?
«La chiesa non è una struttura con un’organizzazione di tipo manageriale. Non si può immaginare che un vescovo diocesano sia sottoposto al papa alla stregua di un impiegato», dice Patrick Valdrini, professore emerito di diritto canonico della pontificia università Lateranense. Nei paesi in cui vige la common law, infatti, l’impostazione del diritto compara un capo di stato a un manager a capo di una gerarchia verticale. La chiesa cattolica è, al contrario, un sistema retto dalle chiese particolari, con a capo i vescovi: «Le rivendicazioni del legale delle tre vittime australiane sono le medesime avanzate in passato nei confronti di papa Benedetto XVI negli Stati Uniti», nota Vadrini. «Citare in giudizio l’autorità suprema della chiesa cattolica è un modo per avere un risarcimento più cospicuo».
È quanto già accaduto nel 2003 a Boston quando, a pochi mesi dall’insediamento del nuovo arcivescovo, Sean O’Malley, l’arcidiocesi accettò di pagare 85 milioni di dollari per chiudere oltre 500 cause legali che citavano in giudizio anche il pontefice.
L’unicità del caso australiano
Il caso australiano resta un unicum. Per anni in Oceania tra la giustizia civile e i provvedimenti canonici si è creato uno iato, che è stato colmato da una narrazione mediatica a tratti aggressiva. Nei più recenti procedimenti, la giustizia civile ha tenuto conto di accuse, spesso lanciate da voci supportate da legali e comitati di attivisti, mantenute anonime per tutelare la riservatezza della parte lesa. Come si può procedere ad accertamenti giudiziari in materie così delicate se le presunte vittime decidono di non esporsi?
Il caso più eclatante riguarda il cardinale George Pell. Nel 2019 il porporato era alla guida della segreteria dell’Economia della Santa sede, quando venne costretto a un congedo per difendersi dalle accuse di aggressione sessuale da parte di una giuria popolare dello stato di Victoria. Secondo l’accusa, gli abusi sarebbero avvenuti nel 1996 ai danni di due chierichetti minorenni nella sagrestia della cattedrale di san Patrizio di Melbourne, al termine di una messa domenicale.
A nulla sono valse le obiezioni della difesa sulle circostanze inverosimili, tanto quanto la testimonianza del cerimoniere incaricato di seguire l’allora arcivescovo, che ha negato l’aggressione. Pell è stato giudicato colpevole e incarcerato, nonostante la precedente giuria non fosse in grado di giudicarlo sulla base delle prove a disposizione. Due anni dopo la sua detenzione, l’Alta corte ha ribaltato quella sentenza, ritenendo Pell non solo innocente, ma indicando che i tribunali inferiori avevano «mancato di considerare la possibilità che gli atti lesivi non fossero accaduti».
Al porporato, tuttavia, non è stata risparmiata la gogna mediatica, iniziata nel 2017 con la pubblicazione di un libro firmato dalla giornalista Louise Milligan, Cardinal: The Rise and Fall of George Pell. Il 10 dicembre uscirà una controstoria della vicenda, scritta dal giornalista Keith Windschuttle, con il titolo The Persecution of George Pell, che promette di saldare il conto con l’atteggiamento colpevolista dei media. E pochi giorni più tardi sarà pubblicato anche il racconto della prigione dello stesso Pell, Prison Journal. Il cardinale nel frattempo è tornato a Roma, ha incontrato Francesco e il suo ritorno si è sovrapposto – coincidenza – con la caduta di Angelo Becciu, cardinale privato dei privilegi e da tempo in contrasto con il porporato australiano. Lunedì Pell ha rilasciato la sua prima intervista da uomo “vendicato”.
Reazione a catena
Dopo Pell è stata la volta del presidente della Conferenza episcopale australiana, Mark Coleridge. Qualche giorno dopo il suo intervento al Summit sulla protezione dei minori in Vaticano, il presule è stato indagato con l’accusa di aver insabbiato alcuni abusi nell’arcidiocesi di Canberra: accusa poi smorzata dalla scelta della donna che lo accusava di non impegnarsi nel processo. Il normale corso della giustizia, si direbbe.
Se non fosse che, un anno prima, la chiesa australiana era stata scossa dal caso di Philip Wilson, costretto a rassegnare le dimissioni da arcivescovo di Adelaide per aver insabbiato alcune segnalazioni di abusi, accuse da lui stesso respinte con vigore. Per la sua rimozione si è adoperato personalmente il primo ministro, Malcolm Turnbull, che aveva fatto pressioni in Vaticano. Dopo una condanna, la corte distrettuale di Newcastle quattro mesi dopo ha assolto il presule, che stava scontando ingiustamente gli arresti domiciliari: anche in questo caso, “ragionevoli dubbi” sulla sua colpevolezza.
L’approccio che papa Francesco ha impresso al problema mostra che la richiesta di giustizia è doverosa. Ma il Vaticano, come mostrano i casi australiani, si trova a fronteggiare le continue richieste di teste di porporati in nome di una presunta giustizia che finisce per picconare l’autorità della chiesa stessa. Nemmeno i verdetti clamorosamente ribaltati sembrano smorzare la furia giustizialista.
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