- Pride è il contrario di vergogna, è il rovesciamento dello stigma che vorrebbe costringere le minoranze a nascondersi dallo sguardo pubblico. È un invito a uscire, a far esistere le differenze affinché ogni persona possa vivere la pienezza delle libertà e dei diritti.
- La manifestazione, che in Italia esiste ormai da un quarto di secolo, è stata trattata in anni recenti come obsoleta: non è forse finito il tempo dell’esclusione? Chiaramente no, e i fatti di attualità dall’Ungheria all’Italia sono qui a ricordarcelo.
- L’opinione pubblica progressista suona l’allarme parlando di “ritorno al Medioevo”. Ma la l’espressione più adeguata è “contrattacco”. È la visibilità ottenuta dai soggetti Lgbt, la loro progressiva inclusione democratica, a scatenare la reazione conservatrice.
Con lo slogan “gay is good, gay is proud” è cominciata oltre cinquant’anni fa, nei moti di Stonewall del 27 e 28 giugno 1969, la storia di resistenza, riscatto e rivendicazione di diritti delle persone gay, lesbiche, bisessuali, trans. Ancora oggi, è l’orgoglio, il sentimento affermativo di sé e della propria comunità, a dare il segno alle mobilitazioni che colorano tante città del mondo nel mese di giugno.
Pride è il contrario di vergogna, è il rovesciamento dello stigma che vorrebbe costringere le minoranze a nascondersi dallo sguardo pubblico. È un invito a uscire, a far esistere le differenze nello spazio di visibilità che è generato dall’agire collettivo, affinché ogni persona possa vivere anche nel proprio quotidiano godendo della pienezza delle libertà e dei diritti civili e sociali.
La manifestazione, che in Italia esiste ormai da un quarto di secolo, è stata trattata in anni recenti come obsoleta: non è forse finito il tempo dell’esclusione? Non siamo definitivamente entrati nella stagione dei diritti? Chiaramente non è così, e i fatti di attualità sono qui a ricordarcelo.
L’Europa politica e quella del calcio si sono trovate in questi giorni a gestire il capitolo scottante dell’Ungheria di Orbán, che ha approvato una nuova legge con cui vieta di esporre i minori a contenuti «devianti rispetto al sesso assegnato alla nascita» o che «promuovono l’omosessualità» – equiparando di fatto quest’ultima alla pedofilia. Diciassette paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, hanno emesso una dichiarazione congiunta di condanna del provvedimento, ma il gruppo di Visegrad è rimasto fuori dalla lista dei firmatari. Ed è stata preoccupazione di non inimicarsi gli stati dell’Est a spingere la Uefa, in occasione della partita Germania-Ungheria, a negare all’amministrazione comunale di Monaco di Baviera l’autorizzazione a illuminare con i colori dell’arcobaleno l’Allianz Arena.
In Italia intanto, mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini si contendono l’amicizia con Orbán, il ddl Zan torna a infiammare il dibattito pubblico. A pesare ora su un iter già accidentato è la mossa del Vaticano, che ha paventato il rischio di violazione del Concordato soprattutto a causa delle iniziative contro l’omofobia che il disegno di legge chiede di attuare nelle scuole. Il timore prevalente è, come in Ungheria, l’impatto educativo delle misure anti-discriminatorie tra le nuove generazioni.
L’opinione pubblica progressista suona l’allarme parlando di un nuovo Medioevo. Ma l’espressione più adeguata è un’altra, è “contrattacco”. Alle spalle di questi eventi ci sono infatti le molte vittorie ottenute da decenni di battaglie per i diritti, come ricorda il filosofo Lorenzo Bernini nell’ebook LGBTQIA+ di Treccani: dalla depatologizzazione dell’omosessualità alle leggi anti-discriminazioni, alle unioni civili e al matrimonio egualitario.
È proprio la visibilità ottenuta dai soggetti delle lotte, la loro progressiva inclusione democratica, a scatenare l’attuale reazione conservatrice. Servirà consapevolezza, forza e una buona dose d’orgoglio, per impedirle di avanzare.
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