Per il portavoce del governo, «per la sua natura la donna non può assumere incarichi istituzionali di rilievo». Dietro l’apparente moderatismo dei vincitori si nascondono concezioni tanto vecchie quanto pericolose. Gli intellettuali, già perseguitati da Assad, adesso temono le sbandate del regime di Al Jolani
Nella “nuova Siria” la donna non potrà godere degli stessi diritti e doveri dell’uomo. A dirlo è Obeida Arnaout, volto mediatico del nuovo potere insediatosi a Damasco e incarnato dalla figura sempre più popolare di Ahmad Sharaa, alias Abu Muhammad Jolani. Queste parole hanno fatto il giro della Siria, suscitando reazioni in diversi ambiti intellettuali e dell’attivismo civile, sia maschili che femminili, in particolare a Damasco e Aleppo.
L’idea della donna
In un’intervista televisiva lo scorso 16 dicembre, il portavoce del dipartimento politico del nuovo governo siriano, espressione di Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts), coalizione armata di ispirazione jihadista per anni basata nella remota regione nord-occidentale di Idlib, ha detto esplicitamente che «per la sua natura biologica e psicologica la donna non può assumere incarichi istituzionali di rilievo».
Arnaout ha aggiunto: «Costituzionalisti e giuristi sono al lavoro per rivedere la forma che prenderà lo Stato nella nuova Siria… anche per il tipo di rappresentanza della donna nelle istituzioni, come i ministeri e il Parlamento». In particolare, il portavoce di Sharaa-Jolani ha spiegato: «La donna è un elemento importante della società e va rispettato. Ma gli incarichi devono essere in armonia con quello che in effetti la donna può svolgere. Per esempio, è possibile che la donna, per la sua essenza e per la sua natura biologica e psicologica, assuma l’incarico di ministro della Difesa? Questo non è certamente un incarico appropriato per una donna perché essa non è capace di svolgere certi incarichi come li svolge l’uomo… la donna può svolgere mansioni nel campo dell’istruzione ma è tutto da vedere se potrà avere incarichi negli apparati giudiziari. Certamente le donne non possono portare armi e non possono stare in posizioni apicali (idarat ‘uliya)».
Parlando col britannico Times, Sharaa-Jolani aveva nei giorni scorsi rassicurato le cancellerie occidentali, affermando che «la Siria non interferirà profondamente nelle libertà personali» ma «terrà in considerazione le tradizioni». Le tradizioni, appunto: è un aspetto chiave per interpretare le parole di Arnaout e, in generale, dell’emergente classe politica proveniente da contesti socio-politici lasciati ai margini dello sviluppo culturale e intellettuale.
In Siria, come in molte altre regioni mediterranee, da decenni la classe intellettuale è stata allontanata dai luoghi della politica e, in molti casi, repressa e decimata. Nella Siria post-Assad gli intellettuali e gli attivisti civili sono la vera “minoranza da proteggere”. Mentre i poteri autoritari e populisti hanno preferito – e preferiscono ancora oggi – dare spazio alle “tradizioni”, con evidenti richiami identitari di stampo confessionale. Soprattutto nelle zone periferiche come il nord-ovest rurale siriano, da cui provengono molti quadri di Hts e che è storicamente contrapposto agli ambienti più aperti dell’attivismo civile damasceno e aleppino.
La contrapposizione non è tanto religiosa – Damasco e Aleppo sono due roccaforti del sunnismo – bensì socio-economica e culturale. Per cui le parole di Arnaout, rispetto ai limiti da imporre nel concedere diritti alle donne, sono state accolte con favore da molti ambienti alawiti, cristiani, ismailiti e drusi della Siria “liberata”.
Le dichiarazioni del portavoce governativo il richiamo di Sharaa-Jolani alle «tradizioni» vanno dunque lette alla luce di questa dialettica: tra un attore a lungo periferico, ma che ha ora l’ambizione e l’opportunità di spostarsi al centro della scena, col favore di un ampio schieramento di forze sociali sedotte dal populismo “rivoluzionario”; e chi, nell’ambito di una nicchia minoritaria di intellettuali siriani, da più di un decennio lotta, pagando anche con il rischio per la propria libertà e incolumità fisica, per una Siria realmente plurale e inclusiva.
In questo senso, il negoziato per dar vita alla “nuova Siria” è solo agli inizi. Consapevoli che se si andasse oggi alle urne Sharaa-Jolani otterrebbe una vittoria schiacciante, diversi intellettuali siriane e siriani hanno reagito con decisione alle dichiarazioni pubbliche di Arnaout. «Il suo cervello è così limitato che lo colpirà una paralisi quando conoscerà la mia particolare natura biologica», ha scritto Joud Hasan, giornalista siriano, ora a Damasco dopo anni di esilio dove ha compiuto il suo travagliato percorso di transizione di genere da donna a uomo.
La regina di Saba
Più esplicita è stata Nagham Salman, attivista originaria della regione costiera siriana e che da anni fa la spola con Damasco. «Le parole di Arnaout sono semplicemente inaccettabili». Rivolgendosi direttamente al portavoce di Sharaa-Jolani, Salman ha detto: «La donna siriana, che ha lottato e sofferto insieme a milioni di altre donne siriane, non sta aspettando che tu le assegni un posto o uno spazio appropriato alla tua mentalità per costruire il nostro paese… siamo ribelli, detenute, combattenti, attiviste, politiche, giuriste, accademiche… prima di tutto siamo cittadine siriane».
Sul tema dei diritti, Safana Baqleh, una delle più note musiciste siriane basata nella capitale, rivolgendosi ad Arnaout e a tutti i siriani, ha scritto: «I diritti non si concedono ma si conquistano… non si può più tornare indietro, è ora di affrontare le paure e rivendicare i diritti a testa alta. Questa è la formula della nuova Siria».
Ma la risposta secondo molti più autorevole ed efficace è giunta da Muaz al-Khatib, ex capo delle opposizioni siriane in esilio e figura rispettata del sunnismo conservatore damasceno, anche perché figlio di uno storico predicatore della Grande Moschea degli Omayyadi. «Nella Siria del futuro avremo bisogno di ogni cittadino. Come musulmano, credo che sia diritto della donna ricoprire tutte le cariche, comprese quelle politiche, come la presidenza dello Stato».
Khatib cita la regina di Saba la cui autorità politica è esaltata nel Corano. E cita lo storico leader politico e intellettuale sunnita sudanese Hasan Turabi, a proposito della difficoltà di passare dall’interpretazione della legge islamica (sharia) in contesti di predicazione a contesti di costruzione dello Stato: «Alcuni fratelli – scrive riferendosi a Sharaa-Jolani e ai suoi uomini – esprimono opinioni personali, ed è loro diritto farlo, come lo è per ciascuno di noi. Ma governare uno Stato è un'altra questione… i giuristi islamici possono avere opinioni diverse, ma è lo Stato a prendere le decisioni operative». Cita la sharia, affermando che questa «non si discosta dalla natura umana e dalla realtà, per cui chi è più idoneo, uomo o donna, viene scelto per servire il popolo».
Soprattutto tocca una ferita aperta nella memoria collettiva siriana e araba riferendosi alla defunta premier israeliana Golda Meir: «Durante il suo mandato, Golda Meir ha sconfitto gli eserciti arabi».
L’ex rappresentante degli oppositori in esilio conclude affermando che «nel contesto della rivoluzione siriana, il ruolo di una ministra o di una parlamentare, per quanto importante questo incarico possa essere, non sarà così impegnativo rispetto a quanto dimostrato dalle donne siriane in questi anni di resistenza epica, di prigionia, schiavitù, di esilio, di povertà, di sfruttamento sessuale, di stipendi da fame, per non parlare del peso della famiglia, degli orfani e di tutte le difficoltà causate dai maschi in condizioni proibitive… come si può pensare che la natura biologica della donna le impedisca di ricoprire un ruolo per il quale ha competenze professionali? Ti prego, caro fratello, l’orizzonte è molto più ampio di quanto immaginiamo. Il posto della donna è ovunque lei desideri essere. E non dove io o te pensiamo lei debba stare».
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