- Undici anni di guerra brutale, l’isolamento internazionale, la rottura della globalizzazione, l’embargo radicale che porta il nome di Caesar, approvato il 20 dicembre 2019.
- È una emozione forte, tornare in Siria, per la prima volta dal 2012, dopo il primo anno della crisi e della guerra, quando erano già cominciati gli attacchi su Aleppo e su Damasco.
- II terremoto si è aggiunto al terremoto cronico della guerra. È difficile fare differenza tra chi ha subito adesso il terremoto e chi è sotto il terremoto delle conseguenze della guerra, perché l’80, forse il 90 per cento della popolazione non ha a sufficienza per mangiare e per scaldarsi.
Sono 114 chilometri, metà in Libano e metà in Siria, da Beirut a Damasco. Da anni nessun aereo occidentale atterra più a Damasco. L’ultimo paese prima del confine, Chtaura, è più che altro due file di money exchange, perché lì i frontalieri hanno un cambio in pound siriane più favorevole. La carta moneta racconta la Siria ancora prima di arrivarci. La banconota più grande è da 5.000.
Fino a un anno fa per un dollaro ce ne volevano 3.000. Adesso 7.000. Un chilo di pane in un anno costa 35 volte di meno. Per questo il World Food Programme stima che ci siano in Siria 12 milioni di abitanti con scarsità alimentare, sui forse 18 milioni rimasti. Per l’equivalente di 1.000 dollari in pound siriane ci vuole uno zainetto.
Undici anni di guerra brutale, l’isolamento internazionale, la rottura della globalizzazione, l’embargo radicale che porta il nome di Caesar, approvato il 20 dicembre 2019. Adesso c’è uno spiraglio nell’embargo, per motivi umanitari.
Ci sono voluti il terremoto, molti appelli caduti nel vuoto e gli ultimi, come quello della Comunità di Sant’Egidio, che evidentemente hanno coinciso con un cambiamento di pensiero nell’amministrazione americana, alla vigilia del primo allentamento. Hanno cominciato ad arrivare i primi aiuti. I riflessi più pronti sono stati quelli dell’Italia, con due cargo aerei e poi l’arrivo a Beirut della San Marco, carichi di aiuti sanitari e di emergenza.
Occasioni perse
È una emozione forte, tornare in Siria, per la prima volta dal 2012, dopo il primo anno della crisi e della guerra, quando erano già cominciati gli attacchi su Aleppo e su Damasco. Nell’anno precedente avevo lavorato, con la Comunità di Sant’Egidio, al tentativo di evitare la carneficina e l’escalation militare che poi c’è stata, attraverso la costruzione di una Piattaforma dell’opposizione interna – e non solo degli espatriati – per un negoziato politico, e non l’escalation militare, con il regime. Una grande occasione persa. Eravamo molto prima dei 700.000 morti e dei sei milioni di profughi fuori dal paese e dei 7 milioni di sfollati interni di adesso.
Il governo controlla il 60 per cento del territorio, con l’80 per cento della popolazione, da sud, Damasco, a Nord, oltre Aleppo, fino al confine turco. A nord ovest, la zona di Idlib, è però controllata da esercito turco, qaidisti islamici, da ribelli non jihadisti e curdi filo turchi e filo americani. A nord est c’è una amministrazione curda, le Forze democratiche di Sicurezza. Da anni 900 soldati americani e l’aviazione Usa garantiscono curdi e turchi, e con i curdi controllano il sottosuolo siriano, gas e petrolio. Gli Usa li vendono ai vicini iracheni, attualmente a guida sciita.
Poi una parte di quel gas siriano viene rivenduto a gocce alla Siria, a prezzi maggiorati. Il resto arriva dall’Iran, scarsamente raffinato. Le raffinerie sono vecchie e insufficienti, e il risultato è nello strato di caligine sulle zone abitate. Alla nuova raffineria di Deir el Zor lavorano i russi. I siriani e i libanesi sopravvivono e si scaldano grazie al traffico di bombole del gas, delle taniche di benzina e dei fusti di olio di semi, trasportati in moto e camioncini tra i due paesi.
Sei eserciti e un terremoto
Damasco è una città viva. Scissa. Vicino alle ambasciate ci sono macchine nuove in doppia fila. Bmw, Mercedes e suv, luci fino a tarda notte: ad appena dieci minuti dalla città delle macchine riparate cento volte, di chi chiede soldi per strada, dalle strade buie, dalle case senza combustibile. L’elettricità nel paese c’è per due o tre ore al giorno.
Il viaggio da Damasco ad Aleppo è indimenticabile. Ma anche difficile da raccontare, perché 340 chilometri, a destra e sinistra, di case e palazzi sventrati, villaggi e piccole città-fantasma, praticamente senza interruzione sono troppi. Si comincia a Duma, a nord di Damasco, e si finisce alla periferia di Aleppo.
Aleppo è un simbolo dell’intera Siria, che, di suo, è un paese con 6 eserciti e più a combattere: i gruppi jihadisti di al Nusra e Daesh, i gruppi armati “secolari”, l’esercito siriano, e poi russi, iraniani e hezbollah, i curdi e l’esercito turco. E gli americani. «La Siria è lo stadio. L’erba è la gente. Tutti ci corrono sopra», mi ha detto un saggio.
Con il terremoto 7.000 nuovi morti nel Nord, 50 i palazzi crollati nella sola Aleppo. Ma dal 19 luglio 2012 al 22 dicembre 201 linea del fronte e assedio infinito. Un pezzo è stato ricostruito. C’è penuria, meno cibo che a Damasco. Ma la vita scorre, in qualche punto anche confusa, un frammento di Napoli e di Istanbul insieme. La Cittadella di Aleppo porta i segni delle bombe. Di fronte, l’hammam, l’antico bagno turco gigante, non c’è più. Al posto di una moschea c’è un cratere. Di fronte, tra quelle distruzioni e la Cittadella, c'è, restaurata, una grande spianata pavimentata in pietra. È il luogo dello “struscio”, mamme con chador e bambini in carrozzina, perché i turisti ancora non ci sono. Decine di ragazzini che giocano a pallone.
Non lontano, in basso, c’è la moschea degli Omayyadi e il suq. Una madrasa antichissima, che all’interno ha un cortile e un altro edificio che era una chiesa bizantina, che ricorda una San Marco in piccolo, è un relitto bombardato. La moschea ha il minareto spezzato e la spianata d’ingresso è un cumulo di macerie.
Può rinascere
Nei parchi ci sono file di tende bianche e azzurre per gli sfollati. Alcuni hanno dormito per un po’ in un cimitero, di fronte alle proprie abitazioni, per paura di saccheggi. Presso Terra Sancta, i francescani – che fanno parte della rete attraverso la quale Sant’Egidio fa arrivare direttamente aiuti urgenti – sono ospitate famiglie di sfollati, come in una moschea. In un grande parco-giardino molte automobili: alcune famiglie preferiscono dormire in macchina, per paura. Assieme a questa rete di cristiani, che guardano al bisogno e non fanno distinzioni tra persone, abbiamo potuto iniziare ad aiutare anche nella zona di Idlib, controllata dai jihadisti.
Poi il ritorno a Damasco. Nella Città Vecchia pullulano caffè e bar, giovani e famiglie, mezze vuote invece le vecchie botteghe, come quella di un falegname che tiene quasi al buio, su un muro annerito, il poster scolorito, della visita di Giovanni Paolo II.
Ma il terremoto si è aggiunto al terremoto cronico della guerra. È difficile fare differenza tra chi ha subito adesso il terremoto e chi è sotto il terremoto delle conseguenze della guerra, perché l’80, forse il 90 per cento della popolazione non ha a sufficienza per mangiare e per scaldarsi. Niente baby milk per i bambini. Infrastrutture dell’acqua danneggiate, 50mila casi di colera. Ricostruzione e bonifica lontane.
Eppure la Siria è vicina. Può rinascere. Dipende dalla politica, e anche da noi e dal nostro aiuto.
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