L’Arabia Saudita ha annunciato il 6 novembre che ospiterà nel 2021 il suo primo Gran Premio di Formula Uno
- L’Arabia Saudita ha annunciato il 6 novembre che ospiterà nel 2021 il suo primo Gran Premio di Formula Uno. Il regime saudita è accusato da tempo di detenere in condizioni terribili i suoi oppositori e di commettere atrocità nel conflitto in Yemen.
- Non è la prima volta che il regime autoritario dello stato arabo prova a fare sportwashing, ovvero a ospitare eventi sportivi per nascondere i suoi crimini: nel 2019, fra le varie manifestazioni, la capitale Ryiad, ha ospitato la finale di Supercoppa italiana.
- L’Arabia Saudita non è l’unico stato ad attuare questa strategia. Gli esempi vanno dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 all’ospitalità data dall’Azerbaijan alla finale di Europa League nel 2019.
L’Arabia Saudita ha annunciato il 6 novembre che ospiterà nel 2021 il suo primo Gran Premio di Formula Uno. Secondo l’accordo, lo stato arabo si impegnerà a pagare 38,2 milioni di euro per ogni gara così da assicurarsi l’organizzazione della gara automobilistica nel paese per i prossimi dieci anni. Si tratta dell’ennesimo tentativo di sportwashing del regime saudita accusato da tempo di detenere in condizioni terribili i suoi oppositori e di commettere atrocità nel conflitto in Yemen.
Dal golf alla Serie A
Quello dello sportwashing è un metodo utilizzato da diversi regimi autoritari per cercare di ripulirsi la coscienza agli occhi del grande pubblico internazionale ospitando eventi sportivi popolari. «È una forma utile e anche relativamente economica per i governi, accusati di violare i diritti umani, per operare una sorta di rebranding rispetto a come vengono percepiti all’estero»: spiega Neil Durkin, membro di Amnesty International nel Regno Unito. Non è la prima volta che l’Arabia Saudita utilizza lo sportwashing: nel 2019, il paese ha ospitato un torneo dell’European Tour, la principale organizzazione di tornei di golf; un incontro per il titolo di pesi massimi di boxe, a cui ha preso parte il campione, Anthony Joshua, e un evento della più grande federazione di wrestling, la World Wrestling Entertainment (Wwe), guidata da Vince McMahon.
Tra le star c’è anche chi ha dato una mano allo stato ospitante a lavarsi la coscienza non solo con la propria presenza, ma anche esponendosi pubblicamente in favore dei governanti dello stato: è il caso del campione di boxe, Anthony Joshua, che ha detto che il governo saudita «sta facendo cose buone». «Ci sono però anche sportivi come il golfista Rory Mcllroy che hanno rifiutato di andare a giocare in Arabia Saudita per una questione morale»: spiega Durkin secondo cui non è «neanche giusto mettere pressione su questi temi a singole celebrità quando le azioni contro regimi come quello saudita dovrebbero essere intraprese dagli stati». Anche lo sport italiano si è prestato a casi simili: nel 2019 la finale di Supercoppa di calcio si è disputata a Riyad, la capitale del paese.
Non solo Arabia Saudita
L’Arabia Saudita non è l’unico paese a guida autoritaria a usare lo sportwashing. «Gli esempi negli ultimi anni si sprecano e partono dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 per arrivare alla finale di Europa League giocata in Azerbaijan nel 2019»: racconta Durkin che ricorda anche l’acquisto del Manchester City da parte dell’imprenditore degli Emirati Arabi, Mansur bin Zayd Al Nahyan, marito della figlia dello sceicco di Dubai e cugino dell’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani. Ma quanto è effettivamente efficace lo sportwashing? «Il fatto che i governi guidati da dittatori continuino a spendere così tante risorse finanziarie fa pensare che lo sia molto»: dice Durkin che poi aggiunge «ma il fatto stesso che noi ne stiamo parlando e che la gente se ne occupa è un segno che, fortunatamente, non è ancora efficace al 100 per cento».
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