I campus delle università americane sono chiusi, in attesa della ripresa delle attività a settembre, ma gli effetti delle manifestazioni filopalestinesi degli ultimi mesi si fanno ancora sentire: dopo le rettrici di Harvard e della Penn University ha presentato le sue dimissioni anche Minouche Shafik della Columbia University di New York, che era finita al centro del dibattito per essere stata la prima dirigente accademica a invocare l’uso della polizia per rimuovere gli accampamenti e le tende degli studenti che stazionavano di fronte alle strutture dell’università.

Tutto questo era accaduto lo scorso 22 aprile, cinque giorni dopo l’inizio dell’occupazione del suolo accademico da parte dei manifestanti, tra i quali si diceva senza fornire prove, ci sarebbero potuti essere anche degli infiltrati da fuori. Shafik aveva deciso di non trattare, a differenza di altri leader accademici. Una scelta che però non ha evitato che ci fossero nei giorni di manifestazioni dei casi di hate speech e di minacce fisiche ad alcuni studenti ebrei e per questo è finita sotto accusa della commissione Istruzione e Lavoro della Camera dei Rappresentanti sempre ad aprile.

Chi, come lo speaker repubblicano della Camera Mike Johnson, era andato a vedere la situazione di persona, ha ritenuto il suo intervento tardivo. Altri come il Columbia Student Council e decine di professori e impiegati amministrativi dell’università, hanno visto questa azione come una violazione del diritto studentesco alla manifestazione pacifica. Insomma, nessuno è stato contento e lo si vede anche dai titoli delle testate americane successivi alle sue dimissioni: se la National Review punta il dito contro il suo essere «simpatetica» nei confronti degli studenti, altri come Vox puntano il dito sui suoi errori da non ripetere nel prossimo autunno, come la mancata comunicazione nei confronti degli studenti. Un portavoce degli Students for Palestine ha espresso soddisfazione per questa decisione ma ci si chiede chi arriverà dopo di lei.

Shafik, infatti, pur finendo sotto accusa, si era sempre rifiutata di mettere sul tavolo delle trattative un totale ritiro degli investimenti fatti con Israele, ma adesso, mentre l’interim passa alla preside della facoltà di medicina Katrina Armstrong, non si sa chi potrà arrivare e potrà accontentare allo stesso tempo una frangia studentesca che rimane sempre intenzionata a lottare per la causa palestinese e un gran numero di donatori con profondi legami con Israele. Per il futuro, intanto, Shafik avrà un ruolo come consulente del nuovo governo britannico per ridisegnare la nuova politica estera di marca Labour, tornando quindi a prendere posto alla Camera dei Lord.

E i manifestanti? Qualche tempo fa sembrava che la convention democratica che si apre a Chicago sarebbe stata scossa dalle contestazioni, in modo simile a quanto accaduto nel 1968 sempre nella Città del Vento, quando le proteste contro la guerra del Vietnam vennero represse brutalmente dalla polizia locale. Adesso l’attuale sindaco Brandon Johnson, pur essendosi mostrato vicino alla causa palestinese lo scorso gennaio approvando una risoluzione sul cessate il fuoco nel consiglio cittadino, ha chiuso il perimetro della convention per evitare una ripetizione degli eventi di oltre cinquant’anni fa, anche se di sicuro la posizione di Kamala Harris su Israele appare più sfumata rispetto a quella di Joe Biden e quindi non è detto che ci sia la stessa forza prevista qualche mese fa. Ciò non toglie però che i trenta delegati eletti come “uncommitted” in protesta per la guerra di Gaza possano spingere la convention ad adottare una risoluzione che spinga per una tregua tra Israele e Hamas, saldando quindi la frattura che si è creata tra i dem sulla questione israelo-palestinese.

A saldare questa divergenza, potrebbe essere anche il candidato vicepresidente Tim Walz, che da governatore del Minnesota, pur non aprendo al boicottaggio dello stato ebraico, si è mostrato ricettivo e aperto alle istanze dei manifestanti.

Quindi, pur non escludendo una larga partecipazione che secondo gli organizzatori potrebbe arrivare «a decine di migliaia di persone», difficile che la piattaforma che i dem approveranno ne risenta come qualche mese fa. Appare infatti evidente come il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump darebbe ancora più mano libera a Benjamin Netanyahu in un’eventuale seconda occupazione israeliana della Striscia di Gaza.

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