La vittoria di Donald Trump alle consultazioni repubblicane appare sempre più inevitabile, dopo l’endorsement ricevuto da parte dell’ex rivale Ron DeSantis. Anche per i dem, che sostengono una campagna-ombra di un presidente Joe Biden che in teoria aveva disconosciuto la competizione in ossequio alle scelte del comitato nazionale democratico, la contesa sembra volgere al termine. In entrambi i casi latita l’entusiasmo
Il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis che si ritira dalla corsa presidenziale a poche ore dal voto del New Hampshire, le primarie comunemente note come “le prime nella nazione”, dà molto il senso di conclusione prossima delle consultazioni organizzate dal principale partito conservatore statunitense.
Certo, rimane in corsa Nikki Haley, ex ambasciatrice presso le Nazioni unite ed ex senatrice del South Carolina, a sfidare l’avanzata sempre più difficilmente contenibile di Donald Trump, ma appare un’impresa con sempre meno chance di riuscita. L’entusiasmo per lei non si è acceso nemmeno ora che finalmente la sfida per le presidenziali si è ridotta a due. Forse a tutto questo contribuisce anche il senso di impresa quasi impossibile per Haley, che, se in New Hampshire, per puro caso, ci fosse una corsa in massa degli indipendenti alle urne per votarla e regalarle una vittoria inaspettata (i sondaggi più rosei la danno indietro di almeno dieci punti percentuali rispetto al tycoon), non avrebbe la stessa fortuna in altri stati dove le primarie invece sono aperte ai soli elettori registrati nel partito repubblicano, in larghissima parte favorevoli a Trump.
Ironia della sorte, fu proprio in New Hampshire che il futuro presidente era riuscito a trovare un rapido riscatto nel 2016, dopo che aveva perso di misura i caucus in Iowa. Questa volta però è molto diversa la situazione.
Appoggio
Il numero di endorsement ricevuto è impressionante anche solo a guardare i freddi numeri: secondo i dati raccolti dal portale Fivethirtyeight, per l’ex inquilino della Casa Bianca ci sono nove governatori (dieci con l’arrivo dell’endorsement di DeSantis nella serata di domenica), 24 senatori e 116 deputati, che comprendono l’intera leadership della Camera dei rappresentanti, compreso il moderato Tom Emmer del Minnesota. Una crescita vertiginosa sin dal primo sostegno incassato più di un anno fa, quando il 9 novembre 2022 il fedelissimo rappresentante della Florida Matt Gaetz annunciò che avrebbe appoggiato l’ex presidente, prima ancora che avesse annunciato la propria candidatura.
Proprio Gaetz, sul suo account X, l’ex Twitter dopo la trasformazione imposta dal suo proprietario Elon Musk, ha riabbracciato metaforicamente l’ex rivale di Trump dicendo «Finalmente rimettiamo insieme la band», alludendo a quando anche DeSantis al Congresso era uno degli alleati più solidi di Trump. Questo episodio apparentemente secondario rimarca palesemente la mancanza di un’alternativa politica all’interno del campo conservatore che non sia proprio il nazional-conservatorismo trumpiano, che però per qualche strana alchimia funziona alla perfezione solo se è il tycoon a guidarlo. Del resto, lo stesso DeSantis ha provato a proporre un conservatorismo altrettanto estremista senza la faccia che ha avuto sin dal 2016, e non ha funzionato per niente.
Nemmeno Haley a ben vedere risulta convincente fino in fondo quando si atteggia a moderata ed erede di un conservatorismo internazionalista di matrice bushiana: nel biennio in cui ha rappresentato l’amministrazione Trump alle Nazioni unite, era una strenua avvocata delle politiche di America First che originavano dalla Casa Bianca, comprese quelle più isolazioniste.
Nonostante la sua trasformazione, spinta anche dal sostegno ricevuto lo scorso novembre da parte del magnate della chimica Charles Koch, già uno dei fondatori occulti del movimento del Tea Party e poi critico non troppo rumoroso del trumpismo, Haley non è riuscita a mantenere una fetta significativa di quell’elettorato conservatore che le servirebbe per spezzare la coalizione trumpiana. Qualora il tycoon riuscisse nell’impresa, sarebbe la prima volta che un candidato repubblicano che non fosse un presidente uscente riesce a vincere entrambe le contese elettorali (era successo per i dem nel 2000 con Al Gore, che comunque era un vicepresidente uscente) e sarebbe l’ennesimo precedente mandato in frantumi nella trumpizzazione del partito repubblicano.
Cosa si muove a sinistra
Anche da parte dem, peraltro, si potrebbe fare la storia: per una controversia con il comitato nazionale democratico, quest’anno il New Hamsphire non assegna delegati per la convention estiva. Così il nome del presidente in carica non sarà stampato. A ogni modo Joe Biden ha tacitamente lanciato, senza fare un endorsement esplicito, una campagna per battere due avversari tutt’altro che irresistibili come la scrittrice Marianne Williamson e il deputato del Minnesota Dean Phillips facendo scrivere il suo nome sulle schede a mano. Un piccolo trucco elettoralistico che però potrebbe concludere anticipatamente anche la stagione dem per le primarie.
Perché anche se Haley tirasse avanti fino al Super Tuesday di inizio marzo, qualora dovesse fallire nel Granite State oggi, riesce difficile che abbia la spinta necessaria per impensierire Donald Trump, che già ha la testa alla scelta del vicepresidente. E questa volta non sarà una scelta a bilanciare il ticket come quella di un conservatore in apparenza bonario come Mike Pence, ma sarà un suo fedelissimo assoluto. Categoria che oggi, nel partito repubblicano, è piuttosto affollata.
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