«Ci hanno gettato al confine come polvere. Ho implorato la polizia di darmi spiegazioni e mi ha risposto: “Adesso sei in un altro paese, vai e pensa a te stesso”». La voce profonda, la barba bianca a contornare un viso scavato dalla sofferenza, gli occhi segnati e stanchi, la pelle delle mani ruvida. Anas Al Mustafà ha 40 anni ed è un rifugiato siriano. È fuggito da Aleppo con la sua famiglia ed è arrivato in Turchia dopo aver perso tutto.
Profughi dei profughi
Nel suo paese di origine, la Siria, si continua a combattere, incessantemente, da dieci anni. Una guerra tutt’altro che civile, iniziata nel 2011 sull’onda delle “primavere arabe”. La Russia da una parte e la Turchia dall’altra. La prima a sostegno delle forze governative di Bashar al-Assad, attuale presidente della Siria, e la seconda a sostegno dei ribelli.
Nella provincia di Idlib, città della Siria nord-occidentale, i bombardamenti continuano e la popolazione civile è sempre più abbandonata a sé stessa, nell’indifferenza della comunità internazionale. In città il numero di profughi è arrivato a toccare le 900mila unità. Circa l’80 per cento è formato da donne e bambini. Molti di loro sono “i profughi dei profughi”: persone strappate alle loro abitazioni per più di una volta, fuggite dall’inferno di Homs, Hama, Aleppo e da molte altre città della Siria. Da Idlib cercano però di scappare ancora.
Un orrore umanitario
Nel dicembre del 2015, Unione europea e Turchia hanno siglato un accordo che stabilisce un finanziamento di tre milioni di euro affinché Ankara blocchi il flusso migratorio siriano verso l’Europa. Anche per questo il numero di profughi è in continua crescita. Si stima che oggi la Turchia ospiti complessivamente circa tre milioni e 600mila rifugiati siriani.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite parla della «più grande storia d’orrore umanitario del secolo».
Anas è nato nelle campagne che circondano Aleppo, nella Siria settentrionale. È uno dei teatri più drammatici dello scontro feroce tra i ribelli e il governo di Damasco. «Ho perso tutto: la mia casa, il mio lavoro, la mia vita», racconta.
Dopo essere riuscito ad attraversare il confine turco, nel 2016 ha ottenuto una protezione temporanea e un regolare permesso di soggiorno a Konya, in Turchia. Ma la disoccupazione è forte e i salari sono molto bassi.
Nonostante i miliardi di euro che riceve la Turchia ogni anno dall’Unione europea, per un profugo avere accesso al cibo, a una casa, ai servizi sanitari e all’istruzione è molto difficile. I rifugiati siriani non possono ottenere lo status di rifugiati e il permesso di soggiorno temporaneo non permette loro di lavorare.
Per sopravvivere si devono accontentare di lavori saltuari, mal retribuiti, nella maggior parte dei casi pericolosi e denigranti, come la raccolta di cartoni per le strade. C’è chi dorme in tende improvvisate, chi in case abbandonate e ridotte in macerie. Uomini, donne e bambini si adattano gradualmente alla miseria e al degrado.
Deportato in Siria
Negli anni, Anas ha svolto una fitta attività di volontariato umanitario e ha dato vita all’associazione no-profit “A friend Indeed”. Ha ricevuto un sostegno da benefattori di varie zone del mondo e così è riuscito a sostenere 175 famiglie molto povere. Sono composte soprattutto da donne e bambini, perché gli uomini sono stati uccisi in Siria. Per molti anni l’associazione di Anas ha collaborato con alcune organizzazioni italiane come "Crescere Insieme" e "Mani di Pace", e con l'organizzazione romena "Help and care trust".
Fino allo scorso 15 maggio, quando viene improvvisamente arrestato, per poi essere deportato forzatamente in Siria: «La polizia turca si è presentata a casa mia, con la scusa di farmi alcune domande burocratiche e mi ha intimato di seguirli. Mi hanno ordinato di lasciare tutti i miei effetti personali e mi hanno rinchiuso in prigione. Mi hanno intimato di firmare un documento redatto in turco, lingua che io non comprendo; alla mia richiesta di spiegazioni, hanno risposto che sarei stato deportato in Siria».
Diritti negati
All’interno della prigione ha incontrato molti siriani arrestati allo stesso modo, con la scusa della verifica della regolarità dei documenti di residenza. Anas non ha avuto accesso ad alcuna forma di diritto e tanto più a quello alla difesa; mentre era in carcere, la polizia turca ha sottratto i suoi documenti, ha strappato quello che lo legittimava a risiedere a Konya e la fotocopia di quello siriano che conservava nel portafoglio.
Alle prime luci dell’alba del 22 maggio, è stato trasportato insieme ad altri cinque giovani rifugiati ed è stato abbandonato al confine siriano con un'auto civile, senza targa. Nei giorni successivi ha vissuto in un centro di isolamento a Idlib, prima di riuscire a scappare.
«Per più di cinque mesi ho vissuto come un clandestino, come un topo, mi vergogno quasi a dirlo. Per che cosa? Qual è mai il mio crimine?». La sua voce si spezza: «Ho avuto paura. Volevo tornare in Turchia. Ho camminato per più di trenta ore, senza acqua e senza cibo, attraverso montagne e foreste, forte soltanto della consapevolezza della mia innocenza».
Giustizia negata
Rientrato a Konya è riuscito a recuperare i suoi documenti originali e ha iniziato il suo percorso di difesa legale nei confronti delle accuse. Ha conosciuto l’avvocata Chiara Modica Donà dalle Rose, specializzata in diritti dell’umanità. Il suo caso è finito così alla Corte di Strasburgo, sostenuto anche dall’interessamento di Amnesty International.
«Nel caso di Anas, l'assenza totale di un procedimento amministrativo di espulsione integra la violazione assoluta di tutti gli articoli del codice afferenti al giusto processo, perché non c’è stato alcun processo» spiega l’avvocata. «La corte dei diritti dell'uomo, prima di vagliare le richieste in sede collegiale, filtra i ricorsi tramite un gruppo di giovani giuristi. Ad oggi non hanno ancora compreso, o non hanno voluto comprendere, che il caso di Anas, come quello di altri, è un caso di negazione dell'accesso alla giustizia, di respingimento collettivo e di messa a rischio concreto di vita. Si ostinano a chiedere la prova che tutte le possibili vie giuridiche per lui siano già state esaurite».
È ormai chiaro che tra Siria e Turchia c’è un vero e proprio stato cuscinetto, gestito dai ribelli, in accordo col governo di Erdogan e le forze armate russe. È il luogo dove vengono deportate e trattenute intere famiglie siriane, contro la loro volontà. Le deportazioni sono falsamente legittimate da documenti in turco, che le famiglie sono costrette a firmare pur non comprendendone il contenuto. In questi documenti manifestano apparentemente la loro volontà di rientrare nel paese di origine.
Qui i deportati vivono in condizioni di assoluta povertà e subiscono vessazioni e violenze quotidiane; all’ordine del giorno sono i casi di rapimenti e torture per mano dei ribelli, che puntano a ottenere riscatti per l’acquisto di armi e munizioni.
Un “soggetto pericoloso”
Oggi Anas è latitante ed è considerato un “soggetto pericoloso” per il suo impegno sociale. Cambia casa ogni giorno per paura dell’ennesima deportazione forzata. Chiede protezione al ministro dell’interno turco e asilo alle Nazoni Unite come rifugiato.
Se anche ci fosse la possibilità per lui di essere accolto in uno degli stati dell’Unione europea, preferirebbe comunque restare legalmente a Konya, per continuare il suo impegno con le famiglie rifugiate. «Vorrei solo continuare la mia vita al sicuro» dice. «Non sono un criminale. Sono un volontario umanitario. Aiuto famiglie povere e vulnerabili che hanno dovuto abbandonare il proprio paese. Molti di questi bambini hanno perso i genitori in Siria, mi vedono come un padre. Non posso abbandonarli».
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