Il potere della stampa, troppo spesso sottovalutato, ha probabilmente salvato il futuro e forse anche la vita dei cinque profughi Kurdo-iraniani che avevamo incontrato, fermati dalla polizia, nei boschi minati al confine tra Croazia e Bosnia.
Una zona pericolosa non solo per il gelo e per gli acquitrini, ma soprattutto per gli oltre 19mila ordigni inesplosi che ancora giacciono in quei luoghi dalla fine della guerra del 1995.
Per una storia che forse finisce bene, però, ce ne sono migliaia di altre che vanno a finire male o non finiscono del tutto. «È necessario – scrive la Caritas – far cessare le prassi di respingimenti violenti sulla frontiera bosniaco–croata».
Il potere della stampa, troppo spesso sottovalutato, ha probabilmente salvato il futuro e forse anche la vita dei cinque profughi Kurdo-iraniani che avevamo incontrato, fermati dalla polizia, nei boschi minati al confine tra Croazia e Bosnia.
La polizia Croata aveva fermato anche noi, e non troppo gentilmente ci aveva controllato i documenti, perquisito la macchina e infine allontanato dalla zona boschiva di confine.
Una zona pericolosa non solo per il gelo e per gli acquitrini, ma soprattutto per gli oltre 19mila ordigni inesplosi che ancora giacciono in quei luoghi dalla fine della guerra del 1995.
Le autorità croate, a cui avevamo inviato una fotografia che li ritraeva, hanno risposto a una nostra richiesta di informazioni sui quattro fermati. «Abbiamo il piacere di informarvi che durante la mattinata di giovedì 7 gennaio 2021 una pattuglia di polizia ha incontrato 5 persone di nazionalità straniera, quattro adulti e un bambino nei pressi della località di Bojina. Erano senza documenti di identità e tutti loro hanno espresso la volontà di chiedere asilo. Sono stati tutti accompagnati a Zagabria, presso il centro per richiedenti asilo della capitale. Cordiali saluti».
Prigionieri del freddo
Per una storia che forse finisce bene, però, ce ne sono migliaia di altre che vanno a finire male o non finiscono del tutto. «Le persone in transito lungo la rotta balcanica – scrive la Caritas italiana, impegnata in un grande progetto di sostegno proprio in quella zona – sono infatti spesso in fuga da scenari di guerra e persecuzione, e hanno pieno diritto alla protezione internazionale». «È necessario – continua la Caritas – far cessare le prassi di respingimenti violenti sulla frontiera bosniaco–croata e ridiscutere le procedure e le politiche migratorie del paese e della regione» aprendo «nuovi corridoi umanitari».
Invece, grazie ad accordi tra Italia e Slovenia che risalgono ancora alla guerra della ex-Jugoslavia, i profughi e i richiedenti asilo che riescono quasi miracolosamente ad arrivare a Trieste vengono rispediti in terra slovena, e poi da lì in Croazia e infine – sempre con la supervisione dell’Unione europea che sostiene economicamente i paesi della rotta balcanica in cambio dei respingimenti da loro effettuati – fuori dall’Unione, in Bosnia, dove le condizioni di sopravvivenza di migliaia di persone sono drammatiche al punto che si sono dovuti inviare, grazie alla Caritas Ambrosiana, dei camion di legna da ardere per poter riscaldare i migranti che spesso vivono – sotto le frequenti tempeste di neve e di gelo di questi giorni – senza nemmeno una tenda entro cui ripararsi.
Una vergogna che grazie al lavoro di giornalisti e di attivisti delle associazioni per i diritti umani, in questi giorni ha costretto l’Ue a dire qualche cosa. «Se la Bosnia–Erzegovina non sarà in grado di soddisfare le richieste dell’Unione europea e gli obblighi internazionali, ci saranno conseguenze per quanto riguarda l’aspirazione del paese di entrare a far parte dell’Ue», ha affermato il portavoce della Commissione per la politica estera, Peter Stano. Secondo Bruxelles sono le autorità nazionali dei paesi balcanici a essere incapaci di attuare le misure richieste dall’Unione e dunque a rispettare gli impegni presi.
Peccato però che alle parole dell’Europa non seguano fatti, non vengano prese decisione punitive nei confronti di chi non rispetta i diritti umani ma anzi, nei Balcani come in Libia, si continuano a riversare fiumi di danaro in cambio dei lavori sporchi che la “culla dei diritti umani” non può permettersi di fare alla luce del sole.
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