Mancano pochi mesi al 9 luglio, quando i sud sudanesi festeggeranno il decimo anniversario della loro indipendenza dal Sudan, ma quel cordone ombelicale reciso nel 2011 dal 98 per cento degli elettori, è ancora oggi intriso di sangue. Nemmeno la chiesa cattolica, protagonista del lento cammino di pacificazione del paese, può definirsi al sicuro. Nella notte di ieri, infatti, il missionario comboniano Christian Carlassare, nominato vescovo di Rumbek appena due mesi fa, ha subìto un agguato ed è stato ferito alle gambe con colpi di arma da fuoco. Secondo quanto riferito dalla Conferenza episcopale del paese il presule non è in pericolo di vita, ma l’evento ha scosso tutte le diocesi, anche per la speranza che il più giovane vescovo italiano della chiesa cattolica porta nello stato più giovane del mondo. «Sento una grande responsabilità. Dovrò riuscire a far capire quanto tengo a loro, anche se le mie origini sono straniere» aveva dichiarato monsignor Carlassare qualche giorno fa ad Avvenire, parlando degli 800mila sud sudanesi della sua diocesi (un quarto è cattolico).

Estesa su un territorio di 60mila chilometri quadrati e con appena 15 parrocchie, a Rumbek la maggioranza della popolazione è di etnia dinka. Appena venti giorni fa, il paese piangeva la morte dell’anziano arcivescovo Paulino Lukudu, il missionario che è stato un saldo pilastro per tanti civili nel marasma del conflitto interno. Luduku e Carlassare, agli antipodi anagrafici, incarnano l’impegno trasversale e atemporale della chiesa cattolica in uno stato che ha smesso di credere ai suoi stessi tentativi di pace.

Finte prove di pace

L’accordo firmato ad Addis Abeba il 12 settembre 2018 tra il presidente Salva Kiir e Riek Machar, rimpatriato dopo il rovinoso esilio costato la vita a centinaia di combattenti, era stato l’atto estremo della pressione diplomatica internazionale. Ma nella stessa Juba, dove il presidente del paese e il leader del movimento ribelle avevano celebrato il rinnovato dialogo, pochi mesi dopo i vescovi cattolici avevano espresso le loro perplessità. «La situazione concreta sul campo dimostra che non si stanno affrontando le cause profonde dei conflitti nel Sud Sudan. Siamo estremamente preoccupati perché, nonostante l’accordo di pace, la situazione sul terreno è che violenze e scontri continuano» avevano dichiarato il 28 febbraio 2019, senza risparmiare la dura condanna ai tiepidi tentativi di riconciliazione: «Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente, tra omicidi, stupri, violenze sessuali diffuse, saccheggi e occupazioni di terreni e proprietà civili. Mentre si parla molto della pace, le azioni non corrispondono alle parole e temiamo che i leader di tutte le fazioni abbiano agende nascoste». Secondo gli ultimi dati forniti dalla Commissione per i diritti umani dell’Africa orientale, il 75 per cento del paese è ancora lacerato da attacchi a livello locale.

Addio alle armi

Nel Sud Sudan il problema sono le armi, sebbene il presidente Kiir abbia rinnovato gli sforzi per il disarmo. Eppure le azioni di un governo in parte svuotato di autorevolezza sono percepite con sospetto dai civili, e questo alimenta gli scontri, anche fatali, con le autorità. «Il disarmo in Sud Sudan assomiglia a un’operazione di contro-insurrezione abusiva, non una raccolta ordinata di armi» dichiarava lo scorso agosto al New York Times Alan Boswell, analista presso l’International crisis group (Icg). Appena un anno prima papa Francesco aveva ricordato ai leader del paese che «la guerra non potrà mai portare la pace, l’unica via è affrontare i problemi senza l’uso delle armi e risolverli davanti al popolo». L’11 aprile 2019, dopo due giorni di ritiro spirituale in Vaticano, il pontefice aveva implorato la pace in ginocchio, baciando i piedi del presidente Kiir e dell’allora vicepresidente designato Machar cercando, nel gesto divenuto iconico, di conciliare simbolicamente le loro rispettive etnie dinka e nuer: «Vi chiedo come fratello, rimanete nella pace», aveva implorato il pontefice.

Tra violenza e corruzione

Da quell’incontro l’accordo di pace è rimasto un tentativo, mentre lo stesso Kiir accusava Machar di reclutare combattenti per rientrare a Juba armato. Intanto la corruzione nel paese resta radicata. Una recente inchiesta realizzata dal portale The Elephant ha fatto luce sul commercio illegale del legno di teak, che viene venduto sottobanco in Europa attraverso l’India, sebbene dal 2013 l’European Timber Regulation dovrebbe arginare la vendita illegale di legname. L’inchiesta mostra nel dettaglio come questa attività stia arricchendo politici corrotti e classi sociali interne che utilizzano i guadagni per dotarsi di armi nel conflitto fra etnie.

Arginare questo e altri fenomeni è impossibile persino per i caschi blu, spesso bersagli degli attacchi: proprio ieri le consultazioni tra le autorità del Sudan e del Sud Sudan per il ritiro delle forze di sicurezza dell’Onu dalla zona demilitarizzata di Abyei si sono concluse con un nulla di fatto. Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per sguarnire la zona cuscinetto tra i due stati ci vorrà almeno un anno. Il clima di incertezza diplomatica si riflette anche a livello locale e così le cicatrici ornamentali che i due gruppi etnici utilizzano da secoli per distinguersi fra di loro, oggi equivalgono a segni distintivi di morte. Intanto, continuano gli appelli dei vescovi a deporre l’ascia di guerra, come il recente invito di monsignor Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio e presidente dei vescovi di Sudan e Sud Sudan. «Queste pecore smarrite devono essere aiutate a riconoscersi tutte figlie di Dio, tutte figlie dello stesso paese, andando oltre i propri clan» aveva dichiarato monsignor Carlassare in una recente intervista all’Osservatore Romano. Parole che oggi, vedendo le immagini del suo corpo insanguinato in barella, lasciano intendere con amarezza quanto la pace sia un percorso spesso in salita.

 

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