«Quella mattina ci siamo svegliati all’inferno. Si sentivano spari ed esplosioni ovunque». La mattina era quella del 15 aprile, il primo giorno di guerra per il controllo del Sudan tra le Forze armate sudanesi, dirette dal capo del Consiglio supremo, generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti.

Alle 8 di mattina a Omdurman, la città a nord della capitale Khartum, era il caos. Fawzi al-Mardi era in apprensione per sua figlia Ala’, una dottoressa di 26 anni, uscita all’alba per andare al lavoro in ospedale. Quando, ore dopo, è tornata a casa, si è tranquillizzato.

Pochi minuti dopo, un proiettile è entrato dalla finestra del salotto colpendo al volto e ferendo gravemente la moglie e poi centrando al petto Ala’, che è morta all’istante.

«La morte ci è entrata dentro casa. Un solo proiettile, in pochi secondi, ha distrutto la mia famiglia».

Il rapporto

Questa storia è una delle tante contenute in un rapporto diffuso questa mattina da Amnesty international sui crimini di guerra compiuti nei primi 100 giorni dalle due parti in conflitto: massacri di civili a seguito di attacchi deliberati e indiscriminati con armi imprecise contro centri abitati densamente popolati, stupri e riduzione in schiavitù sessuale, attacchi mirati contro strutture civili quali ospedali e chiese, saccheggi e devastazioni.

A Kalakla, uno dei quartieri meridionali di Khartum, gli scontri sono iniziati il 20 aprile. Mentre i rumori delle esplosioni diventavano più forti e vicini, Kodi Abbas, un insegnante di 25 anni, ha gridato ai suoi familiari di uscire di casa e mettersi in salvo. I due figli minori, Hassan di sei anni e Ibrahim di otto, insieme al nipotino Koko di sette anni, troppo piccoli per correre velocemente, non ce l’hanno fatta a fuggire.

Il 13 maggio uomini delle Forze di supporto rapido sono entrati nel complesso della chiesa copta di Mar Girgis (San Giorgio), nel quartiere di Bahri a Khartum. Hanno ucciso cinque religiosi e trafugato danaro e una croce d’oro.

Nel Darfur occidentale è tornato l’incubo della campagna di 20 anni fa. Vittime, le stesse: i civili. Criminali, gli stessi: le Forze di supporto rapido e le milizie arabe loro alleate.

Il 14 maggio Adam Zakaria Is’haq, un medico e difensore dei diritti umani di 38 anni, è stato ucciso insieme a 13 pazienti nella clinica di emergenza Markaz Inqadh al-Tibbi, nel quartiere di Jamarik a El Geneina. Lavorava lì perché, un mese prima, l’ospedale principale era stato bombardato e distrutto. Secondo due colleghi di Is’haq, gli assassini facevano parte di una milizia armata araba.

Il 28 maggio gli scontri tra Forze di supporto rapido e milizie loro alleate da un lato e gruppi armati di etnia masalit dall’altro hanno sconvolto la città di Misterei, a sud ovest di El Geneina. In un solo giorno sono state sepolte 58 persone. In una famiglia sono stati uccisi cinque fratelli.

L’elenco dell’orrore

«Sei uomini delle Forze di supporto rapido hanno fatto irruzione alle 8 di mattina nella nostra abitazione. Si sono diretti nella stanza in cui c’erano mio marito e i suoi quattro fratelli e li hanno uccisi. Poi sono entrati nella stanza in cui mi ero chiusa con i miei figli e altre 12 persone, tra donne e bambini. Ci hanno presi a bastonate e a scudisciate, ci hanno chiesto dove fossero le armi e ci hanno rubato i telefoni», ha dichiarato Zeinab Ibrahim Abdelkarim, moglie di uno dei cinque fratelli assassinati, Al-Haj Mohamed Abu Bakr.

Il 6 giugno i dormitori femminili dell’Università di El Geneina sono stati centrati ripetutamente da colpi di mortaio. Sono rimaste ferite decine di persone che si erano rifugiate lì a causa dei combattimenti nei dintorni.

Una donna di 25 anni di El Geneina ha raccontato che il 22 giugno tre miliziani arabi in abiti civili hanno fatto irruzione negli uffici dell’anagrafe, nel quartiere di al-Jamarik, dove lavorava, e l’hanno stuprata: «Non c’è alcun luogo sicuro a El Geneina. Avevo lasciato casa perché c’erano sparatorie ovunque e questi criminali mi hanno stuprata. Ora temo di essere incinta. Non potrei sopportarlo».

Sempre dalle parti di El Geneina, 24 donne e ragazze sono state rapite dalle Forze di supporto rapido e portate in un albergo, dove sono state trattenute per parecchi giorni in condizione di schiavitù sessuale. Molte di loro non hanno poi avuto accesso a cure mediche e a servizi di sostegno psicologico.

Numerose strutture sanitarie e umanitarie sono state danneggiate o distrutte in tutto il Sudan, privando la popolazione di cibo e medicinali e aggravando una situazione già insopportabile. La maggior parte dei casi di saccheggio chiama in causa le Forze di supporto rapido.

Il 21 giugno Amnesty international ha scritto alle Forze armate sudanesi e alle Forze di supporto rapido per condividere le sue conclusioni e chiedere informazioni su specifici casi documentati nel suo rapporto. Hanno risposto entrambe, rispettivamente il 12 e il 14 luglio, asserendo il proprio rispetto del diritto internazionale e accusando l’altra parte di averlo violato.

La fuga

La realtà è che in Sudan nessun luogo è sicuro e chi può fugge negli stati confinanti. Lo hanno già fatto 560.000 persone, delle quali almeno 120.000 si trovano attualmente in Ciad, quasi 130.000 in Sud Sudan e oltre 250.000 in Egitto.

Tantissime altre, dopo essere state costrette a pagare mazzette ai posti di blocco delle due parti in conflitto, sono ancora bloccate lungo le frontiere. Nella gran parte dei casi, sono prive di documenti: c’è chi ha lasciato il passaporto dentro le ambasciate occidentali, evacuate frettolosamente, dove si era recato per chiedere un visto d’ingresso; e chi, rifugiato in Sudan come nel caso degli eritrei e dei siriani, non è stato più in grado di rinnovare un permesso scaduto.

© Riproduzione riservata