«L’impressione è quindi che lo scontro tra esercito e Rsf proseguirà, non è destinato a fermarsi a breve», dice una fonte anonima a Domani. Per questo migliaia di persone stanno lasciando il paese il prima possibile cercando nuove destinazioni
Mentre si attende di sapere se l’iniziativa di pace per il Sudan lanciata lo scorso 26 aprile dal’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) – l’organismo internazionale che raggruppa vari paesi del Corno d'Africa – per un prolungamento della tregua e un incontro a Juba, Sud Sudan delle parti in conflitto (programmato per il 28 aprile, ndr) avrà successo, i combattimenti, concluso il cessate il fuoco di 72 ore sono ripresi in modo massiccio a Khartoum.
Parti della capitale sembrano ormai sotto il controllo dei paramilitari delle Rapid support forces (Rsf) e dalle testimonianze dei civili rimasti risulta che le Rsf costringano i residenti a condividere cibo e acqua e che alcune unità di miliziani si siano impossessate di case abbandonate.
«Purtroppo la situazione a Khartoum non sembra migliorare – spiega una fonte che chiede di restare anonima, raggiunta da Domani a Khartoum via Whatsapp nella mattinata del 28 aprile – e se nei primi giorni gli scontri erano concentrati nella capitale o al nord di Khartoum, ora coinvolgono anche Omdurman, la città gemella di Khartoum sull’altra sponda del Nilo. L’impressine è quindi che lo scontro tra esercito e Rsf proseguirà, non è destinato a fermarsi a breve. In Darfur ci sono scontri molto aspri in alcune zone: le città di Geneina e Nyala sono a ferro e fuoco. Fortunatamente le altre città del Sudan registrano scontri molto meno intensi e sporadici».
La grande fuga
Il terrore diffuso da ormai due settimane di combattimenti sempre più intensi, oltre ai circa 550 morti accertati e alle migliaia di feriti, sta causando esodi biblici e spostando fette enormi della popolazione verso i confini o in aree meno colpite dal conflitto.
«Ad eccezione di Khartoum e delle due principali città del Darfur – continua la fonte – negli altri centri del paese si registrano pochi scontri e certamente di intensità molto minore. Il problema per queste aree, però, è dettato dal massiccio arrivo di gente in fuga, stanno pagando il flusso enorme di persone che cercano luoghi più sicuri o che si stanno spostando verso i confini con il Ciad, il Sud Sudan, l’Etiopia, perfino con l’Eritrea: per la prima volta in decenni, ci sono eritrei che tornano in patria (dove li attende una delle peggiori dittature contemporanee da cui scappano migliaia di persone al mese, ndr). Molti provano a raggiungere Port Sudan e salire su un traghetto per Gedda. Da lì sono già stati evacuati migliaia di stranieri, soprattutto asiatici, indiani, filippini e altri, mentre al confine con l’Egitto si sta creando una situazione molto pesante, con tante persone che attendono giorni per passare la frontiera e le autorità egiziane che invece le respingono. Ne passano solo pochi, prevalentemente cittadini egiziani».
Tra i tanti che cercano di lasciare il paese ci sono molti sudanesi rimasti senza passaporto perché le ambasciate straniere hanno evacuato il proprio personale in fretta e furia, senza restituire i documenti ai richiedenti il visto. La fuga della comunità internazionale dal paese è ormai generalizzata.
Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha iniziato l’evacuazione del proprio staff dal Sudan, le ambasciate sono vuote, la Casa Bianca ha esortato gli americani a lasciare il paese nelle prossime 48 ore «perché la situazione potrebbe deteriorarsi in qualsiasi momento», anche molte ong se ne sono andate.
Volker Perthes, il capo dell’Unitams, la missione delle Nazioni unite in Sudan resiste, ma il paese sembra trasformarsi in un campo aperto in cui i duellanti si affrontano senza impedimenti.
Chi rimane
Tra i pochi non sudanesi a restare ci sono i missionari cristiani. «Per quanto riguarda il personale ecclesiastico – dice la fonte – una parte di loro si è mossa in ritardo: all’inizio i missionari pensavano che la cosa durasse pochi giorni e che non fosse pericoloso restare. Adesso stanno riconsiderando la possibilità di andarsene ma non riescono per motivi logistici o a causa del fatto che molti religiosi non sono provenienti da paesi europei che hanno capacità diplomatiche più consistenti, ma sono africani, latinoamericani o asiatici. I cristiani laici sono quasi tutti sudsudanesi e tentano di fare ritorno nel proprio paese (il Sud Sudan, una regione a maggioranza cristiana, ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011 anche per emanciparsi da uno stato a prevalenza musulmana e con una leadership dalla connotazione islamica, ndr.), ma non sarà facile».
Gli occhi di tutti, al momento, sono puntati su Momahed Hamdan Dagalo, leader delle Rsf. All’appello dell’Igad per un’estensione della tregua di altre 72 ore e di aprire un tavolo negoziale a Juba, a partire da venerdì 28 aprile, non ha ancora risposto. Il leader delle Forze armate sudanesi (Saf), Abdel Fattah al-Burhan, invece, si è detto interessato «a questa iniziativa».
Le speranze che gli scontri non conducano il paese a un conflitto aperto sono al momento appese al fragile tavolo di Juba.
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