L’Africa è “un museo di malattie infettive”, e questo ha fatto sì che non venisse colta di sorpresa dall’ennesima malattia che andava ad aggiungersi a malaria, tubercolosi, Hiv, colera, febbre di Lassa, morbillo ed Ebola
- Pochi casi e poche morti nel continente più povero non sono attribuibili solo alla minore quantità di test disponibili. La prima ragione di questa apparente stranezza è che l'Africa è un continente giovane, l’età media è vent’anni, età in cui non si muore di Covid.
- Forse la maggiore consuetudine con le molte malattie infettive ha reso gli africani più immuni al nuovo coronavirus.
- Lo sviluppo di una capillare sanità territoriale, insieme a lockdown molto tempestivi, ha protetto il continente meglio di quanto sia riuscito a fare l’Europa e gli Stati Uniti.
In tutta l’Africa, con i suoi 1,2 miliardi di abitanti, Covid-19 ha fatto circa tanti morti quanti in Italia: 40mila. I numeri sono ballerini anche qui, ma non possono nascondere l’anomalia di un continente che il mondo dava per travolto dal nuovo Coronavirus e invece al momento sembra aver reagito molto meglio di Stati Uniti ed Europa. La prima ragione di questa apparente stranezza è che l'Africa è un continente giovane, l’età media è vent’anni, età in cui non si muore di Covid. Se l’età media dei morti in italia è di 82 anni, in Kenya è di 50 anni.
È pur vero che nelle megalopoli africane si stanno sviluppando a dismisura malattie non trasmissibili come diabete, obesità, malattie cardiovascolari e infiammatorie croniche, che sono noti fattori di rischio per Covid. Alcuni gruppi di ricerca, fra cui quello del ricercatore napoletano basato all’Università di Glasgow Pasquale Maffia, stanno studiando proprio questi casi.
«Le ricerche sulle malattie non trasmissibili che conduciamo insieme colleghi africani in Kenya, Malawi, Nigeria, Ghana e Sudafrica cercano di capire anche gli aspetti immunitari coinvolti nell’epidemia, e ci possono aiutare a rispondere ad alcune domande cruciali. Per esempio, perché sembrano ammalarsi e morire di meno? Certo è che la malattia è più diffusa nei paesi più grandi e urbanizzati. Negli ospedali non si contano molti casi gravi, ma questi sono riferibili a pazienti affetti anche da “malattie del benessere” che fino a poco tempo fa non credevamo frequenti in Africa».
Le ragioni
Come le morti, anche i casi confermati nel continente africano sono relativamente pochi: 1.700.000 dei 41 milioni globali. Si dirà che visti gli scarsi mezzi diagnostici i positivi sono certamente sottostimati, ma ci sono anche altre spiegazioni possibili, fra cui alcune molto istruttive anche per noi. «L’esposizione alla tubercolosi e ad altre malattie infettive - fra cui altri coronavirus - potrebbero aver stimolato una risposta immunitaria che difende anche da Covid.
C’è anche l’ipotesi, non confermata al momento, che il vaccino Bcg contro la tubercolosi sia protettivo» mi spiega Kinyari Teresa Mwendwa, epidemiologa dell’Università di Nairobi e componente della Covid task force kenyota. «Stiamo studiando anche i fattori genetici della popolazione e dei tipi virali che hanno raggiunto il continente. Infine la dispersione della popolazione nei territori rurali meno raggiungibili può averla protetta.
La maggior parte dei casi infatti si concentra nel città più popolose come Nairobi e Mombasa, in particolare negli slum più poveri dove è difficile mantenere un distanziamento». Sta di fatto che il 93 per cento dei casi accertati è asintomatico, e secondo alcuni studiosi se la porzione dei casi gravi e delle morti si mantenesse basso si potrebbe pensare all’Africa come uno dei pochi posti al mondo dove potrebbe aver senso provare a perseguire una immunità diffusa senza troppe perdite umane.
I primo caso africano è stato registrato il 14 febbraio in Egitto, mentre il primo caso dell’Africa subsahariana è stato un uomo d’affari italiano a Lagos il 28 febbraio. Si pensava che il contagio sarebbe arrivato dalla Cina, principale partner commerciale dell’Africa, invece dalle analisi del genoma virale risulta provenire dall’Europa.
La risposta all’epidemia è stata inaspettatamente rapida e coordinata centralmente dall’Unione africana (Ua). Molto più rapida e decisa dei nostri penosi tentennamenti. Già dai primi giorni di gennaio alcuni stati come la Costa d’Avorio, Mauritius e Rwuanda hanno prima cominciato a controllare gli arrivi dagli aeroporti, poi hanno soppresso i voli da e per la Cina e altre destinazioni a rischio. Dei 53 paesi che compongono il continente quasi tutti hanno iniziato a comunicare i dati quotidiani del contagio al Center for Disease Control (Cdc).
La sanità territoriale
La prima ondata africana ha avuto il suo picco a luglio per scendere verso fine agosto. L’epidemia si è sviluppata più lentamente che in Europa anche per la presenza in Africa di una robusta sanità territoriale: centinaia di migliaia di operatori sanitari di comunità, fra cui anche i corpi di volontari sanitari, sono stati formati dal CDC per eseguire campagne di test capillari.
L’Unione africana ha a sua volta stabilito una piattaforma di acquisto di reagenti tamponi e mascherine al servizio di tutti i paesi dell’Unione, anche grazie a donazioni internazionali, fra cui 20 milioni di dollari donati dalla Fondazione Bill & Melinda Gates.
Secondo molti commentatori l’iniziativa ha funzionato meglio dell’analogo tentativo fatto dall’Unione europea, poco considerata dai paesi membri anche per difficoltà di ordine burocratico. L’Ua invece ha lasciato gestire la distribuzione del materiale sanitario a operatori privati guidati dall’imprenditore miliardario dello Zimbabwe Strive Masiyiwa. Non sono mancate inoltre “innovazioni frugali”, come un test rapido sviluppato in Senegal all’inizio della pandemia per diagnosticare Covid in 10 minuti e del costo di 1 dollaro, o l’uso di droni usati in Ghana per sanificare dall’alto mercati e altri spazi pubblici.
L’Africa è “un museo di malattie infettive”, e questo ha fatto sì che non venisse colta di sorpresa dall’ennesima malattia che andava ad aggiungersi a malaria, tubercolosi, HIV, colera, febbre di Lassa, morbillo ed Ebola.
Con pochi mezzi e maniere spicce, molti paesi hanno giocato d’anticipo con lockdown decisamente precoci. Come la Nuova Zelanda, dal 20 marzo l’Unione africana ha disposto infatti che superati i 100 casi i Paesi avrebbero imposto un lockdown stretto per “appiattire la curva”. Cosa che effettivamente è stato fatto fra luglio e settembre, anche se a costo di un impoverimento che si stima fra il 2 e il 5 per cento del Pil continentale.
«La gente comincia a patire per queste chiusure e vorrebbe tornare alla normalità. Non è facile far rispettare le regole del distanziamento e dell’uso della mascherina, nonostante le multe salate per chi non la indossa,» continua Teresa Mwendwa. «In questi mesi non sono comunque mancati i progressi: nelle campagne sono stati potenziati i servizi di acqua potabile, per rendere possibile il lavaggio delle mani.
Le 47 contee del Kenya sono state dotate di 300 letti d’ospedale ciascuna per i casi più gravi, e grazie alla fondazione Gates anche di cisterne di ossigeno». Come ha raccontato recentemente il virologo John Nkengasong, a capo del Cdc, «all’inizio dell’epidemia alcuni paesi non avevano nemmeno un respiratore, né letti di terapia intensiva. Abbiamo dovuto approntare un sistema di emergenza in pochi mesi».
Ma le cose sotto pandemia cambiano in fretta. Ancora il 27 ottobre Nkengasong dichiarava che era ora di riapre in sicurezza scuole, frontiere e far ripartire l’economia. Quattro giorni dopo il messaggio è diverso: «L'Africa deve prepararsi adesso a una seconda ondata della pandemia, poiché i casi aumentano in Europa e in alcuni paesi dell'Unione Africana». Tutto il mondo sembra sincronizzarsi sotto la pressione di Covid-19. Ma l’Africa resta, insieme ai paesi ipertecnologici dell’Asia pacifica la meno colpita. Dobbiamo smetterla di guardarla dall’alto in basso, ha qualcosa da insegnare anche a noi.
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