Mentre da giorni si discute delle conseguenze dei nuovi dazi che potrebbero essere introdotti con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, a Rio De Janeiro – dove è in corso il G20 – si tratta su un abbattimento quasi totale delle tariffe doganali tra Sud America e Unione europea. Il trattato di libero scambio con i Paesi Mercosur è tra i principali dossier sul tavolo dei 20 capi di Stato e di governo riuniti in Brasile, ma l’Ue ancora una volta non riesce a parlare con una sola voce, spaccata tra favorevoli (guidati dalla Germania) e contrari (capitanati dalla Francia).

Mentre sullo sfondo c’è il timore di un ritorno della protesta dei trattori, negli ultimi giorni il governo italiano sta lavorando sottotraccia per bloccare l’accordo. Ieri, 18 novembre, Macron ha incontrato Meloni e ha trovato proprio nella premier italiana un’atipica alleata. E in serata, sul lungomare della spiaggia di Ipanema, si è lasciato andare a un inedito complimento, considerati i rapporti non idilliaci tra i due: «Ha fatto bel lavoro sul Mercosur, davvero».

Cos’è il trattato di libero scambio Mercosur-Ue

Se ne discute almeno da un quarto di secolo. Era il 1999 quando si è parlato per la prima volta del Free trade agreement (Fta), l’accordo di libero scambio tra l’Ue e i Paesi del Mercato comune sudamericano nato nel 1991, il Mercosur, di cui fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay (con 300 milioni di abitanti e una superficie di15 milioni di chilometri quadrati è il 50 per cento più grande dell’intero continente europeo). Dopo un’intesa firmata per la prima volta nel 2019 ma mai ratificata, ora ci si avvicina alle battute finali della prima fase delle negoziazioni, con i leader riuniti al G20 per limare le differenze in attesa del vertice Mercosur del 5 e 6 dicembre in Uruguay, a Montevideo. I dazi promessi da Trump sono stati probabilmente un acceleratore.

Il trattato con i Paesi dell’America Latina sarebbe il più importante mai firmato da Bruxelles, per popolazione e volume di scambi, e quest’area diventerebbe tra le zona di libero scambio più grande al mondo. Coinvolgerebbe 720 milioni di persone e arriverebbe a cancellare gradualmente, secondo gli ultimi dati del Parlamento europeo, il 92 per cento delle barriere commerciali tra le due aree. Insomma, una linea diametralmente opposta a quella che gli Stati Uniti inaugureranno dal prossimo gennaio.

Tra i prodotti coinvolti, i principali sarebbero quelli agricoli: carne bovina, pollame, frutta, zucchero. Ma anche alcolici o beni industriali come automobili, abbigliamento, prodotti chimici o farmaceutici. Un capitolo centrale del Fta riguarda la protezione delle indicazioni geografiche (Ig) europee e gli elevati standard comunitari, con un riconoscimento di 350 Ig nell’area Mercosur, per tutelare prodotti come formaggi, vini e, in generale, alimenti tipici dell’Unione europea.

Le divisioni nell’Ue

Tutti d’accordo? Nient’affatto. La principale preoccupazione, come ogni volta che l’Ue tratta con l’estero, è la difesa del proprio interesse nazionale e dei propri produttori: i 27 Stati europei hanno specificità – e quindi sensibilità – diverse.

Così gli Stati del Vecchio Continente sono divisi in due fronti, con Francia e Germania ai poli opposti. E con la Commissione europea, e von der Leyen in prima persona, che spinge per arrivare al più presto a un accordo ma che si trova a dover raggiungere una sintesi (impossibile?) tra le diverse posizioni. Il commissario europeo all’Agricoltura, il polacco Janusz Wojciechowski, ha aperto alla possibilità di rinegoziare l’accordo perché – ha spiegato – rispetto al 2019, quando è stato firmato il primo accordo, «è cambiata la condizione degli agricoltori», gravati «dalla guerra in Ucraina e dagli effetti del cambiamento climatico. Dobbiamo prendere in condizione seriamente le loro preoccupazioni».

La Francia guida il fronte del «no»

Da Rio De Janeiro Macron ha ribadito che Parigi «continuerà a opporsi» al trattato. E non è il solo: il complimento fatto a Meloni davanti le telecamere, assieme al vertice non previsto e reso pubblico dallo stesso presidente francese, è stato un chiaro modo per certificare pubblicamente l’alleanza con l’Italia.

La Francia è la prima potenza agricola dell’Ue e il primo beneficiario della Pac, la Politica agricola comune, la principale voce del bilancio comunitario. La partita si gioca soprattutto sui prodotti alimentari. Il timore del governo francese e dei suoi agricoltori è che il Paese si trovi inondato di beni che i Paesi dell’America latina riuscirebbero a vendere a prezzi fuori mercato per via degli standard meno rigidi rispetto a quelli europei.

Il bocco sudamericano è il principale esportatore al mondo di pollo, carne vaccina, mais e caffè. Anche per questo lo scorso 12 novembre oltre 600 parlamentari hanno chiesto a Ursula von der Leyen di rinegoziare nuove condizioni nell’accordo. E il giorno dopo il premier Michel Barnier è andato a Bruxelles per mettere in guardia la Commissione sull’«impatto disastroso» che quest’accordo potrebbe avere su «interi settori, in particolare l’agricoltura e l’allevamento».

Il compromesso su cui lavora Parigi è l’inserimento di clausole per imporre standard identici di produzione ai Paesi del Mercosur. Sullo sfondo, però, c’è il rischio che si infiammi di nuovo la protesta degli agricoltori, che dallo scorso 13 novembre sono tornati in piazza con i propri trattori, anche a Bruxelles, e che si sono già detti pronti alle barricate. Per ora quello francese è il governo che guida la rivolta europea, ma alla fronda del «no» si sono aggiunti via via atri Paesi: dall’Austria all’Olanda fino al Belgio e, negli ultimi giorni, anche l’Italia. Dopo il bilaterale non previsto tra Macron e Meloni.

Le spaccature nel governo italiano

Meloni non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali, ma per il governo italiano, da Bruxelles, è intervenuto Francesco Lollobrigida, nelle vesti di ministro della Sovranità alimentare prima che dell’Agricoltura: «Così come è impostato, il trattato Ue-Mercosur non è condivisibile». Per un Europa «già drammaticamente indebolita dalle crisi geopolitiche» – è il ragionamento dell’ormai ex cognato di Giorgia Meloni – sarebbe sbagliato aprire a una competizione sleale con i produttori sudamericani e per questo «va verificato a monte l’adeguamento nei Paesi aderenti al Mercosur agli stessi oneri he imponiamo ai nostri agricoltori in termini di rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente».

Lollobrigida, che ben interpreta la linea di Fratelli d’Italia, è vicino alle posizioni espresse da Coldiretti. Anche la principale associazione di agricoltori, in una nota del 17 novembre, si è detta infatti contraria all’accordo perché «l’attuale formulazione dell’intesa – si legge nel comunicato firmato con Filiera italiana – non considera le differenze degli standard produttivi», oltre al fatto che nell’area «vigono regole meno stringenti rispetto a quelle europee sull’uso di sostanze chimiche e tecniche di produzione».

Se la Lega si è subito allineata al partito della premier – per bocca del predecessore di Lollobrigida, Gian Marco Centinaio, che ha chiesto di «bloccare tutto» – a far venire fuori le diverse sensibilità all’interno della maggioranza di governo ci ha pensato Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia si è dichiarato «favorevole all’accordo», pur riconoscendo che «ci sono dei punti che devono essere risolti».

La Germania e il fronte del «sì»

Spalleggiata da Madrid, è Berlino guida il fronte del «sì». Nonostante anche la Germania sia un Paese a forte trazione agricola (esposta prodotti per oltre 50 miliardi), il governo Scholz sembra scommettere maggiormente sul nuovo grande mercato di sbocco che potrebbe diventare il Sud America per automobili e componentistica, oltre che per altri prodotti industriali tedeschi. Il tutto anche per tutelarsi dai rischi del neoprotezionismo di Trump e dalle tensioni negli scambi commerciali con la Cina.

A prescindere da come andrà a finire questo nuovo braccio di ferro europeo, l’eventuale firma dell’accordo il prossimo dicembre a Montevideo non sarà che un primo e parziale giro di boa. Poi il testo andrà ratificato, oltre che da Consiglio e Parlamento europeo, da tutti i 27 parlamenti nazionali. E qui il rischio che i Paesi insoddisfatti oppongano il proprio veto è una possibilità più che reale.

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