La premier ha promesso in dote agli Usa l’abbandono della Via della seta, e Tajani è in Cina per gestire la transizione: della seta resta solo il cuscinetto diplomatico col quale attutire la caduta. Il ministro prepara la visita di Meloni; e anche Mattarella andrà in Cina
La missione cinese di Antonio Tajani è una: ammortizzare gli urti.
Per il governo Meloni la presa di distanza dell’Italia dalla Belt and Road Initiative è già nei fatti. L’attuale premier aveva fatto della sua appartenenza al fronte anticinese un tema di campagna elettorale e un argomento per la propria legittimazione come forza di governo agli occhi degli Usa. Non c’è da stupirsi quindi che ora le pressioni statunitensi si siano fatte sentire, e che Meloni e i suoi le sentano tutte.
Ma non a parole: tanto la premier, quanto il ministro degli Esteri, esibiscono cautela e apertura verso Pechino. La mossa è tattica. Tajani è andato in Cina precisamente per questo motivo: per gestire la transizione dalla Via della seta. Di quella seta resta solo il cuscinetto diplomatico con il quale il governo intende attutire la caduta.
Già Francia, Germania, Spagna, si sono poste prima di noi il tema di come equilibrare le priorità economiche con quelle geopolitiche. Adesso tocca al governo italiano gestire il dossier, e per l’occasione non esita a coinvolgere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che come è già successo – si vedano le tensioni con l’Eliseo – è chiamato al ruolo di stemperatore d’intemperie. «Il prossimo anno verrà Mattarella, in Cina», fa sapere non a caso Tajani durante la sua visita.
Una questione di fronte
«Firmato nel marzo 2019, questo memorandum of understanding resterà valido per cinque anni, e verrà esteso in automatico per altri cinque a meno che una delle parti non comunichi con tre mesi di anticipo una diversa intenzione». Questo dice l’intesa siglata durante il governo Conte I, quando ministro degli Esteri era Luigi Di Maio, e quando per la Lega – che è tuttora al governo – c’era Michele Geraci a tessere l’accordo, da sottosegretario allo Sviluppo economico.
Sul suo sito Geraci continua a far la voce della Cina, ma nel frattempo la destra è slittata verso una esibita presa di distanza: durante la campagna elettorale che poi l’ha resa premier, Meloni ha rassicurato la Casa Bianca schierandosi ostentatamente contro Pechino. A poche ore dal voto ha ribadito che «l’adesione dell’Italia alla Via della seta è stata un grande errore».
Non c’è da stupirsi che gli Usa abbiano nutrito aspettative in tal senso, e i primi cinque anni scadono nel 2024; il redde rationem è arrivato all’incontro tra Meloni e Joe Biden di fine luglio.
Il “derisking” all’italiana
Proprio all’uscita dallo studio ovale, Meloni ha tenuto a dire che andrà anche in Cina.
L’Italia si trova di fronte a un bivio che riguarda anche altri paesi fondatori dell’Ue: ognuno è in cerca di un nuovo equilibrio tra allineamento agli Usa e richieste del proprio comparto produttivo. Il cancelliere tedesco e il presidente francese sono già stati da Xi con imprenditori al seguito. La presidente della Commissione Ue ha dovuto inventarsi il “derisking” – l’attenuazione del rischio – perché il “decoupling” – la rottura totale dalla Cina – incontrava resistenze tra i governi.
E l’Italia? Chigi fa il derisking a modo suo: anche se l’abbandono della Via della seta è il nodo, stando alle dichiarazioni del governo – e di Tajani – pare che sia andato a legarsi invece che a gestire un divorzio.
Il traghettatore e l’arbitro
«Ho visto rafforzarsi le relazioni fra Italia e Cina nel contesto del partenariato strategico che offrirà opportunità alle nostre imprese», ha dichiarato Tajani questo lunedì, dopo aver incontrato l’omologo Wang Yi e il ministro per il Commercio. «Abbiamo un interscambio in crescita e più di 1.600 imprese nel paese, vogliamo esportare ancor più e rendere sempre più operativo il partenariato». E se non bastasse: «Il partenariato strategico è più importante della Via della seta».
Insomma Tajani, che prepara la visita in Cina di Meloni ventilata per l’autunno, fa da traghettatore: cerca di addolcire la pillola; e a Pechino fanno intendere – foss’anche per bon ton – che ci sia riuscito. Persino gli esperti citati dal cinese Global Times – utile bollettino degli umori della nomenclatura – speculano che un mancato rinnovo dell’intesa nel 2024 non sarà una battuta d’arresto nei rapporti tra i due paesi; intanto Tajani dalla Cina imbonisce gli imprenditori: «Il governo è al loro fianco per migliorare le condizioni di accesso al mercato cinese e per favorire l’export».
Se non bastasse tutto questo ad ammorbidire gli urti, è prevista anche la visita di Mattarella. In piena crisi tra Meloni e Macron, era stato lui, il presidente della Repubblica, a fare la trasferta riparatrice parigina. E ora, tocca la Cina.
© Riproduzione riservata