La sua candidatura alle presidenziali rivoluziona lo scenario e rischia di avvicinare lo scontro con la Cina. Spaccando il campo del dialogo, il fondatore di Foxconn agevola l’ascesa dell’indipendentista William Lai Ching-te
Un cagnolino o un micetto in omaggio ai genitori per ogni neonato, per contrastare l’invecchiamento della popolazione che minaccia l’economia taiwanese. È questa l’ultima trovata estratta dal cilindro di Terry Gou, il fondatore della multinazionale dell’elettronica Foxconn che, dopo aver annunciato la sua candidatura la settimana scorsa, dovrà raccogliere 290mila firme entro il 2 novembre per correre, come indipendente, alle presidenziali di Taiwan del 13 gennaio 2024. Chissà che non possa aiutarlo la dea Matsu, la protettrice dei marinai della mitologia cinese che - ha raccontato Gou - gli è apparsa in sogno convincendolo a “scendere in campo”.
Non che il “Trump di Taiwan” non abbia un’opinione sulla questione che, più delle altre, orienterà la scelta di 19 milioni di elettori, ovvero il rapporto con la Cina di Xi Jinping, che negli ultimi 12 mesi ha inscenato tre prove di blocco navale e aereo intorno all’Isola che dal 1949 rivendica come una sua provincia ribelle. Gou si è presentato così: «Imploro il popolo di concedermi quattro anni. Prometto che porterò la pace nello Stretto di Taiwan per i prossimi 50 anni e getterò solide basi per la fiducia reciproca tra le due sponde».
Il fatto è che il magnate nato a Taipei il 18 ottobre 1950 punta a sottrarre voti al centrodestra e al centrosinistra, dagli scontenti del partito nazionalista Kuomintang (Kmt), fino agli animalisti. «Il Partito progressista democratico (Dpp) è al potere da più di sette anni e ha portato il pericolo di guerra a Taiwan», ha sostenuto Gou, assicurando che «io non permetterò mai che Taiwan diventi la prossima Ucraina». Gou ha deciso di correre da solo dopo la bocciatura (la seconda, dopo quella del 2019) nelle primarie Kmt, che a maggio gli ha preferito il sindaco di Nouva Taipei, Hou Yu-ih.
Miliardario e outsider
«Stiamo parlando di un magnate che ha accumulato un patrimonio personale di oltre 7 miliardi di dollari grazie alla produzione in appalto, un uomo che non accetta la risposta “no”», spiega la reporter taiwanese Tsai Ting-I. «Per aggiudicarsi gli ordini per la sua Foxconn ha sempre tagliato il prezzo. Ma la politica è un gioco completamente diverso». I sondaggi sembrano darle ragione.
Gou è accreditato solo per il 12,9 per cento, ma ha tutto il tempo per recuperare consensi, anche tra il 15,7 per cento di indecisi. In testa c’è l’attuale vice presidente, William Lai Ching-te (Dpp), con il 33,4 per cento. Segue Ko Wen-je, del Partito del popolo (Tpp): la sua “terza via” – più attenta al lavoro, piuttosto che allo scontro con la Cina o ai diritti civili – raccoglierebbe il 22,7 per cento dei suffragi, soprattutto tra i giovani. Ultimo, con il 15,3 per cento, Hou, al quale, più che agli altri concorrenti, Gou drena voti. Il suo Kmt, che nelle amministrative dell’anno scorso ha sconfitto il Dpp, grazie alla mossa del “Trump di Taiwan” può dire addio al sogno di riconquistare dopo otto anni la presidenza.
L’effetto del ciclone Gou è stato quello di dividere ulteriormente il campo “non-verde” (il colore del Partito progressista democratico, ndr), favorevole al dialogo invece che agli strappi con Pechino, agevolando l’ascesa dell’indipendentista William Lai Ching-te.
Con l’avvicinarsi del voto che rinnoverà anche lo Yuan legislativo (il parlamento, ndr), i media locali agitano lo spauracchio della guerra. Articoli che rilanciano l’idea di addestrare «Un’armata di 20.000 volontari per difendere Taiwan con i droni», che riferiscono che un «Parlamentare statunitense (il vice presidente della commissione forze armate del Congresso, Rob Wittman, ndr) promette una reazione decisa se Taiwan sarà attaccata, che assicurano che Taiwan riceverà entro il 2023 sette sistemi Vulcano per posare mine» intorno agli aeroporti e a possibili punti di sbarco dei militari cinesi, e così via.
Xi come Donald
I suoi detrattori dipingono Mr. Foxconn come un pupazzo di Pechino. Creata nel 1974, l’azienda (nome ufficiale: Hon Hai Precision Industry Corporation, ndr) è diventata una protagonista della globalizzazione proprio grazie alla Cina, dove, a partire dal 1988, ha messo in piedi un efficiente quanto irreggimentato sistema di produzione in outsourcing per i grandi marchi internazionali, a partire da Apple, per la quale sforna milioni di smartphone nelle metropoli di Shenzhen (nel Guangdong) e Zhengzhou (nello Henan).
Gli affari di Gou sono stati favoriti dal Partito comunista cinese, con le autorità locali che hanno assecondato la crescita di Foxconn con agevolazioni fiscali, terreni per gli impianti (e libertà d’inquinare), e partecipando attivamente al reclutamento di manodopera a basso costo. I ritmi di lavoro alienante, le paghe da fame (che nel corso degli anni sono cresciute costantemente) e le condizioni di alloggio degli operai sono stati portati a galla dalle ong, dalla catena di suicidi di operai nel 2010 e dagli ammutinamenti di massa dei lavoratori rinchiusi nelle “città degli iPhone” durante la pandemia.
A Taiwan però Gou piace, non solo perché è un self made man divenuto ricchissimo, ma anche perché si è calato perfettamente nella parte dell’outsider che con il suo linguaggio diretto si contrappone ai compassati politici di professione. Per questo i suoi sostenitori hanno affollato i comizi che hanno accompagnato il suo sbarco in politica, e il Kmt ha preannunciato provvedimenti disciplinari contro gli iscritti che appoggeranno Mr. Foxconn.
Discendente – come la maggior parte dei sostenitori del Kuomintang – di una famiglia originaria della Cina continentale emigrata nell’Isola durante la disfatta militare che, nel 1949, avrebbe portato alla proclamazione da parte di Chiang Kai-shek della “Repubblica di Cina”, Gou è un visionario. Uno capace, nel 1974, di lanciare (con un investimento di 7.500 dollari) Foxconn come produttrice di componenti per i televisori in bianco e nero per la gloriosa Zenith di Chicago (passata ai sudcoreani di Lg), ma, fin dall’inizio, con una “mission”: rendere i prodotti elettronici parte integrante della nostra vita quotidiana.
Instabilità a Taipei
Ama circondarsi di donne molto più giovani di lui, e a Taiwan sta circolando un audio in cui avrebbe definito la presidente Tsai Ing-wen una “zitella”. A chi gli rinfaccia i suoi rapporti con Xi Jinping bisognerebbe ricordare che Gou ha flirtato anche con Donald Trump, che nel 2018 presenziò alla presentazione di un investimento da 10 miliardi di dollari di Foxconn a Mount Pleasant, nello stato del Wisconsin. Pecunia non olet, anche a Taiwan.
Da un punto di vista strettamente politico, la “discesa in campo” di Gou e l’avanzata di Ko (che nel 2019 ha fondato il Tpp come alternativa al Kmt e al Dpp) preannunciano una rivoluzione nel sistema taiwanese, imperniato sul duopolio Kuomintang-Partito progressista democratico da quando, nel 1996, sull’Isola si svolsero le prime elezioni democratiche.
Il parlamento uscente (113 seggi) è dominato dal Dpp (64 deputati) e dal Kmt (38). L’ascesa di nuovi partiti e leader prefigura, da un lato, un più ampio confronto di idee e una rappresentanza più in linea con l’evoluzione della società. D’altro canto, non solo il prossimo parlamento sarà più frammentato, ma, proprio per effetto della diversificazione dell’elettorato, il nuovo presidente di Taiwan non avrà una legittimazione popolare forte quanto quella di Tsai, che nel 2020 ha ottenuto il secondo mandato con il 57,13 per cento dei voti, contro il 38,61 per cento del suo sfidante del Kmt, Han Kuo-yu.
Le epiche scazzottate nello Yuan legislativo di Taipei sotto lo sguardo impassibile della gigantografia del generale Sun Yat-sen sono da sempre tra i principali argomenti della propaganda di Pechino: democrazia vuol dire prendersi a botte, rallentando il processo decisionale.
Ora però, oltre alla pressione militare di Pechino, al sostegno politico e alle massicce forniture belliche di Washington alle autorità del Dpp, anche un’accentuata competizione politica a Taipei rischia di accelerare l’esplosione della temutissima quarta (dopo quelle del 1954-’55, del 1958 e del 1995-’96) crisi dello Stretto.
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