- Domenica scorsa, a margine del G20, il ministro degli esteri Wang Yi ha incontrato in un albergo romano il segretario di stato Antony Blinken, un faccia a faccia teso di un’ora: i due non si sono né stretti la mano, né scambiati il colpo di gomito anti-covid.
- Soldati taiwanesi addestrati dagli Usa anche a Guam, duecento sorvoli militari di Pechino contro Taipei. Wang a Blinken: così distruggiamo i nostri rapporti.
- Insomma, gli ingredienti per una “tempesta perfetta” ci sono tutti, nonostante né Pechino né Washington – concentrate su agende e grossi problemi interni – desiderino un conflitto e l’esercito taiwanese sia impreparato a sostenerlo.
Alla guerra commerciale-tecnologica, al braccio di ferro su Hong Kong e sulla regione del Xinjiang, e agli altri dossier che hanno fatto calare tra Pechino e Washington un gelo carico di risentimento si è aggiunto, ed è finito in primo piano, quello che sarebbe stato saggio tenere il più a lungo possibile sotto naftalina: Taiwan.
Domenica scorsa, a margine del G20, il ministro degli esteri Wang Yi ha incontrato in un albergo romano il segretario di stato Antony Blinken, un faccia a faccia teso di un’ora: i due non si sono né stretti la mano, né scambiati il colpo di gomito anti-covid.
«Quella di Taiwan è la questione più sensibile tra Cina e Stati Uniti – ha ricordato Wang a Blinken – e se sarà affrontata male, distruggerà il complesso delle nostre relazioni». Ciò significa anzitutto – sottolineano gli osservatori cinesi – che in assenza di un chiarimento su Taiwan, non ci saranno le condizioni per l’incontro in videoconferenza, previsto per la fine dell’anno, tra i presidenti Xi Jinping e Joe Biden.
Wang e Blinken si sono lasciati con l’impegno a mantenere aperti i canali di comunicazione diplomatici e militari, ma – come nei colloqui del marzo scorso tra gli inviati di Biden e di Xi in Alaska – Washington si è scontrata contro il muro di una leadership che ha subìto la trade war, ma che su quelle che considera questioni di principio non accetta “prediche” Usa, come le chiamano i media nazionalisti. Del resto la “normalizzazione” a colpi di leggi speciali e arresti di dissidenti dell’ex colonia britannica e della regione nordoccidentale a maggioranza musulmana procede senza che mesi di rimostranze occidentali abbiano sortito alcun effetto.
Il viaggio di Wang in Europa è coinciso con quello del ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, in Repubblica ceca, Slovacchia e a Bruxelles, dopo che la Lituania aveva annunciato l’apertura nella capitale Vilnius di un ufficio di rappresentanza di Taiwan. Come a Washington, anche a Bruxelles Pechino ha opposto la sua arma più affilata, la geoeconomia: richiamo dell’ambasciatore e stop alle importazioni di prodotti agricoli dalla repubblica baltica, e un avvertimento agli altri paesi: «Gli europei devono assumere una posizione corretta, per evitare interferenze nel sano sviluppo delle relazioni Cina-Unione europea».
L’azzardo di Tsai Ing-wen
Su Taiwan sono venuti al pettine i nodi prodotti dai due principali attori che stanno alterando lo status quo ante: Xi Jinping, che ha inserito la “riunificazione” di Taiwan tra i traguardi della “grande rinascita della nazione cinese”; e Tsai Ing-wen, la cui agenda politica è incentrata sulla conquista di spazi di autonomia formale per il Davide democratico di 23 milioni di abitanti che governa dal 2016, diviso dal Golia comunista dai 180 chilometri dello stretto.
Il Partito comunista si è a lungo crogiolato nell’idea che i rapporti economici tra le due sponde dello stretto sarebbero sfociati in una “riunificazione” pacifica di Taiwan, completando l’unificazione nazionale di Mao e compagni. Ma nel corso degli ultimi decenni a Taipei è maturata una democrazia liberale, mentre Pechino sta costruendo un esercito forte, e ciò alimenta la sfiducia e i sospetti reciproci.
Pechino non tollera quelli che teme possano rappresentare passi verso un’indipendenza de iure dell’isola dove nel 1949 si rifugiarono i nazionalisti sconfitti dai comunisti nell’ultima fase della guerra civile (1945-1949), nonostante la Repubblica di Cina (questo il nome ufficiale di Taiwan) sia riconosciuta soltanto da 14 stati più il Vaticano. Non solo, ma sospetta che le mosse di Tsai siano concordate con Washington, parte di una più ampia strategia Usa di containment da Guerra fredda.
La presidente paladina dei diritti civili – nonostante l’opposizione popolare alle sue riforme delle pensioni e del mercato del lavoro – è stata rieletta per un secondo e ultimo mandato quadriennale l’11 gennaio 2020. Mentre nell’ex colonia britannica il movimento pro-democrazia viveva le sue ultime fiammate e Pechino avviava la repressione, il suo slogan-spauracchio era stato «Hong Kong oggi, Taiwan domani»: un messaggio che ha fatto presa, soprattutto tra masse di giovani gelosi di un’identità “taiwanese” contrapposta a quella di una Cina continentale di cui aborriscono il sistema politico autoritario.
Ma ora Tsai deve portare a casa qualche risultato concreto, altrimenti il partito nazionalista Kuomintang, guidato del neoeletto Eric Chu (favorevole al dialogo con Pechino), potrebbe recuperare terreno. La strategia di Tsai e del suo Dpp è quella di internazionalizzare il problema di Taiwan. Fumo negli occhi per la leadership del Partito comunista, che lo considera una “questione interna” della Cina.
L’ambiguità strategica
E così la settimana scorsa Tsai ha rivelato la presenza di consiglieri militari statunitensi sull’isola. Un andirivieni di istruttori e marine da Washington – implicito nel “Taiwan relations act” approvato dopo che gli Usa, nel 1979, riconobbero la Repubblica popolare cinese al posto di Taiwan – di cui Pechino probabilmente era a conoscenza da tempo. Ieri i media di Taipei hanno aggiunto che una quarantina di marine taiwanesi si esercitano assieme a truppe scelte americane nell’isola di Guam, nel Pacifico occidentale. Rivelazioni che a Pechino vengono lette come il tentativo di alterare la tradizionale politica di “ambiguità strategica”, in base alla quale gli Stati Uniti non hanno mai dichiarato se/per chi prenderebbero posizione nel caso di un conflitto tra le due sponde dello stretto.
Per raggiungere il suo obiettivo Tsai da un lato sta facendo appello alla solidarietà delle democrazie e, dall’altro, sta cercando più spazio per Taiwan (e non per “Taipei cinese”, la denominazione accettata da Pechino) all’interno delle organizzazioni internazionali.
E quando, il 22 ottobre scorso, Biden ha dichiarato che «abbiamo un impegno a proteggere Taiwan» e, quattro giorni più tardi, Blinken ha aggiunto che «noi incoraggiamo tutti gli stati membri delle Nazioni Unite a unirsi a noi nel sostegno a una robusta e significativa partecipazione di Taiwan attraverso il sistema delle Nazioni Unite e nella comunità internazionale», a Pechino è scattato l’allarme rosso. Washington non intende più rispettare né l’ambiguità strategica né il “Consenso del 1992”? Quest’ultimo, sottoscritto da rappresentanti di Pechino e Taipei, stabilisce che esiste “una sola Cina”, che per il Kuomintang allora al potere significava che la Repubblica popolare cinese (Prc) e la Repubblica di Cina (Roc) convengono che esiste “una sola Cina” che però gli uni identificano nella Prc e gli altri nella Roc; e per Pechino vuol dire che c’è un’unica Cina (Taiwan inclusa), di cui la Repubblica popolare cinese è l’unica rappresentante.
Così può scoppiare la guerra
La doppiezza del Consenso del 1992, assieme alla politica di “ambiguità strategica” hanno garantito finora la pace e floride relazioni economiche tra le due sponde dello stretto.
Ma a Taipei dal 2016 è al potere, per la prima volta, un partito (il Dpp) apertamente indipendentista e ostile al Consenso del 1992, mentre a Washington, incalzata dalla lobby taiwanese, una parte del Congresso spinge per rivedere i “vecchi” capisaldi della politica Usa, e a Pechino i settori più nazionalisti e quelli legati all’esercito fanno pressione su Xi, invocando il ricorso alla legge anti-secessione, la norma varata nel 2005 dall’amministrazione Hu Jintao che all’articolo 8 stabilisce la possibilità dell’impiego delle forze armate contro Taiwan nel caso l’isola si dichiari indipendente.
Insomma, gli ingredienti per una “tempesta perfetta” ci sono tutti, nonostante né Pechino né Washington – concentrate su agende e grossi problemi interni – desiderino un conflitto e l’esercito taiwanese sia impreparato a sostenerlo.
Anche per questo Xi e Biden sono chiamati a raggiungere presto un compromesso, perché mentre tra le due sponde dello stretto e tra Pechino e Washington la tensione continua a salire, il rischio principale è che una mossa azzardata da parte di Pechino o Taipei, oppure un incidente nei cieli o nel mare dello stretto scateni un conflitto. Il record di 200 sorvoli di aerei effettuati il mese scorso dall’esercito popolare di liberazione all’interno delle zone d’identificazione aerea (Adiz) taiwanesi ha già fatto alzare in volo gli intercettori e allertato le difese missilistiche di Taipei. E il passaggio nelle ultime settimane di navi da guerra statunitensi, britanniche e canadesi nello stretto non contribuisce certo a ridurre la tensione.
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