- Ashmat è tornato nel suo villaggio, in una valle al nord dell’Afghanistan, attraversata da fiumi con l’acqua verdissima, circondati da montagne che superano i 6mila metri. Ha scoperto che questa acqua sempre gelida, anche d’estate, serve a fare rispettare il Corano.
- Seguono altre imposizioni. Chi detiene un’arma, consuetudine normalissima in questo paese, dove il mestiere delle armi gode sempre di un consenso sociale ammirato, deve consegnarla ai talebani.
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Ashmat si era trasferito a Kabul prima della ritirata americana. Ma consumati i risparmi per alloggiare nella capitale ha preso la via del ritorno. Arrivato a casa ha capito che l’emirato funziona in modo frantumato.
Ashmat è tornato nel suo villaggio, in una valle al nord dell’Afghanistan, attraversata da fiumi con l’acqua verdissima, circondati da montagne che superano i 6mila metri. Ha scoperto che questa acqua sempre gelida, anche d’estate, serve a fare rispettare il Corano.
Espiare la colpa
Adesso nel suo villaggio tutti devono andare alla moschea cinque volte al giorno per la preghiera. Se gli studenti islamici notano qualche assenza la colpa può essere espiata con un bagno forzato nel fiume gelido. Chissà in quale anfratto del Corano, o in quale fatwa di un mullah incolto e vendicativo, le fiamme purificatrici dell’inferno cristiano qui si trasformano in un bagno ghiacciato.
Certo prima del tuffo ci sono altre punizioni per i renitenti della preghiera: una multa che può arrivare alla somma di 500 afgani, equivalente a due chili di farina, con l’inflazione arrivata assieme ai Talebani moltiplicando i prezzi per cinque. Oppure la colpa può essere espiata riparando le strade sterrate sempre bisognose di cure.
In queste periferie di montagna il bagno gelato si sta diffondendo. A un matrimonio gli strumenti musicali sono stati distrutti, il cibo sequestrato, e i musicisti sono finiti nell’acqua gelida, assieme a una parte dei presenti. I matrimoni sono stati da sempre un bersaglio della moralizzazione talebana, per i debiti micidiali che le famiglie affrontano pur di accogliere mille o 2mila invitati. Il principio della sobrietà è rispettabile, ma la soluzione è barbarica.
Seguono altre imposizioni. Chi detiene un’arma, consuetudine normalissima in questo paese, dove il mestiere delle armi gode sempre di un consenso sociale ammirato, deve consegnarla ai Talebani.
Nel contesto sociale di oggi impaurito e insieme impoverito non è difficile che scatti la delazione, per ottenere un compenso immediato, o solo per ingraziarsi i nuovi padron. Così un ignaro abitante disarmato del villaggio, denunciato da altri, è andato a procurarsi un’arma per sfuggire alla punizione. Quando invece un raro benestante, colpevole di altre violazioni, ha proposto generosamente di pagare una decina di suoi concittadini e di mandarli a riparare le strade, gli studenti islamici hanno ribadito che la pena non è trasferibile, doveva subirla lui, spalando terra e sassi, o con il bagno nel fiume.
Anche qui è emersa l’ossessione e l’ostilità verso le scuole femminili, le bambine possono andare a scuola solo fino alle prime sei classi. Nella bella stagione i quattro turni giornalieri per le ragazze iniziavano alle sei, sulle strade sterrate a quell’ora si incontravano solo pecore e bambinette, con davanti anche un’ora di cammino. Adesso quella marcia non è più affollata. E le famiglie stesse, davanti alla restrizione delle sei classi, per ritorsione lasciano a casa anche i maschi. I genitori sanno molto bene, a differenza degli occidentali, che i Talebani considerano come massima insidia alla virtù le classi miste, dove secondo loro una ragazzina dentro un’aula è come «una caramella già privata del suo involucro di carta».
Ma forse la presenza più allarmante nel villaggio del nord sono i giovanissimi Talebani, che con un kalashnikov in mano trasformano subito la loro incompetenza e improvvisazione in spavalderia e arbitrio. Questi arruolati dell’ultima ora confermano ancora una volta che il dna degli studenti islamici è lo stesso esibito oltre quaranta anni fa dai kmer rossi. Pol Pot aveva affidato a soldati bambini un’arma ciascuno, trasformandoli velocemente in automi, in killer gelidi, capaci di spiare, denunciare e uccidere senza sentimenti.
Certo a Kabul o a Kandahar i Talebani non hanno esibito queste reclute, anzi hanno ripulito i guerrieri barbuti dall’eccesso dei loro torvi camuffamenti, facendo indossare divise, elmetti, scarponi. Ma la realtà delle campagne e delle montagne è un’altra cosa. Le statistiche Onu di questi giorni dicono che almeno venti milioni di afgani non hanno cibo sufficiente.
Provincia profonda
Ashmat, figlio di una famiglia importante, laureato, interprete di uno straniero famoso e rispettato tra Pakistan e Afghanistan, aveva convissuto per quasi venti anni con i Talebani, impegnato in attività umanitarie. Distribuiva gli aiuti con una sua regola. Il terreno per una nuova costruzione doveva essere scelto dalla comunità, non da qualche esperto straniero, e offerto dalla stessa comunità, i materiali per costruire invece venivano pagati dai donatori, e gli abitanti venivano pagati per costruire i nuovi edifici.
Alla fine nel villaggio tutti consideravano con orgoglio quella costruzione –una cabina elettrica, un minuscolo acquedotto, un bagno pubblico, due aule scolastiche, una infermeria – frutto del loro lavoro e non più una donazione. La popolazione locale compatta insorgeva con urla, sassi e bastoni per difendere quello che aveva costruito e così le mine islamiche erano riservate solo ai mezzi blindati della Nato.
In una vallata vicina c’era stata una vicenda esemplare, con un campo sportivo in costruzione, dove a suo tempo i sovietici avevano una base per elicotteri e carri armati. I Talebani si erano presentati per bloccare i lavori. Erano un centinaio, aggressivi, volevano quel terreno per allargare la scuola coranica, che anche ai miei occhi sembrava in abbandono, con vetri rotti alle finestre, e non certo affollata di studenti.
Ashmat aveva semplicemente chiesto alla popolazione se preferivano il campo sportivo per i loro figli o allargare lo spazio religioso: «Decidete voi». La popolazione in corteo aveva respinto quelle pretese immobiliari. Sapeva di avere altri studenti islamici amici su in alta montagna, che in pieno inverno potevano utilizzare le scuole chiuse per il freddo e la neve, impraticabili per i bambini. E dove nella breve estate le famiglie ogni anno dovevano decidere se farsi aiutare nell’alpeggio dai figli, migliorare così la loro fragile condizione economica con quelle piccole braccia, o se invece dare loro un po’ di istruzione. Questi sono i problemi della provincia profonda.
Caos e incertezza
Ashmat si era trasferito a Kabul prima della ritirata americana, convinto che in una città con oltre quattro milioni tra abitanti e profughi i nuovi padroni del paese non avrebbero potuto essere troppo brutali né avere gli uomini sufficienti per esserlo. Ma consumati i risparmi per alloggiare nella capitale ha preso la via del ritorno.
Arrivato a casa ha capito che l’emirato funziona in modo frantumato. Ha visto che a Mazar e a Kunduz, città importanti, tutte le scuole fino alle università accettano le ragazze, purché separate dai maschi. Che il cibo non manca nei grandi bazar, mentre nei piccoli centri la cena si riduce spesso a pane e tè.
Solo le cipolle non sono aumentate di prezzo. I suoi amici gli raccontano che a Kandahar il ricco raccolto di uva e dei pregiati melograni destinato all’esportazione è rimasto a marcire alla frontiera di Spin Boldak, bloccata dai pachistani che non amano il sostegno saudita ai Talebani di quella importante provincia, capitale politica ai tempi del mullah Omar. Insomma, il caos è diffuso.
Alla fine Ashmat ha abbandonato gli uffici della sua organizzazione e si è trasferito a una decina di chilometri dal villaggio. Esce raramente di casa, consuma giorni pieni di incertezza. Non ha nulla da nascondere ma già tre mesi prima della caduta di Kabul aveva visto apparire nella sua valle volti sconosciuti, di infiltrati. Non è una novità da quelle parti.
A Rustag, sempre al nord, in passato si aggiravano ceceni e tagichi. Portavano aiuto militare e assistenza nelle telecomunicazioni contro le forze Nato. Per l’internazionale islamica ma anche per la mafia della droga.
I Talebani avevano già capito che il paese era pieno di redditizie compagnie telefoniche, che tutti quei cellulari dovevano restare muti quando loro preparavano operazioni notturne. Imponevano il silenzio dei trasmettitori, e tutti impararono a rispettarlo dopo i primi tralicci messi fuori uso.
Oggi nelle vallate il mondo digitale balbetta per qualche ora al giorno, con tariffe da rapina e tracciamenti saltuari. Anche per questo il nome finto di Ashmat tutela un vecchio amico, e di proposito la sua valle in queste righe non ha nome.
Quando arriverà l’inverno qui scenderanno dieci, venti metri di neve, mezzo metro in venti minuti come hanno sperimentato gli uomini di una ong danese, salvati da un pastore comparso miracolosamente nella tormenta. E poi con il disgelo le valanghe cancelleranno pezzi di strada e porteranno via la terra fertile del fondovalle.
Sullo sfondo la povertà ormai diffusa, solo le cipolle sono calate di prezzo. Mentre la valuta degli emigrati non trova ancora i canali abituali per arrivare ai familiari in patria. Sullo sfondo l’immagine di Haqqani, il talebano più feroce e potente, ministro degli Interni, conquistatore di Kabul, che in pubblico e in televisione nasconde il suo viso.
Esattamente come il mullah Omar, di cui esistevano solo due vecchie foto sfuocate. Gettare nel fiume i renitenti alla preghiera non sazierà la fame.
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