I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco, contraddicendo la versione ufficiale. Gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana, l’agenzia Onu responsabile della sicurezza tace
- I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e altre due persone, avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco.
- La ricostruzione corrobora l’ipotesi di un tentativo di rapimento scrupolosamente pianificato ed esclude la versione ufficiale, quella di una rapina fatta da banditi locali terminata con uno scontro a fuoco.
- L’agenzia Onu responsabile della sicurezza rimane in silenzio e gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana. Perché il nostro governo non pretende collaborazione da quello del Congo, con cui pure vanta ottimi rapporti?
«Ero in servizio al Parco del Virunga, lavoravo come assistente giornaliero e mi trovavo nella zona delle Tre Antenne quel 22 febbraio. A Kibumba, sulla strada Goma-Rutshuru, era giorno di mercato. Alle 10.15 circa udimmo degli spari e poco dopo vedemmo un gruppo di individui armati pesantemente che spingevano quattro persone verso la boscaglia, due bianchi – ho saputo dopo che erano l’ambasciatore Luca Attanasio e la sua guardia del corpo – e due neri. Quando ha incrociato i ranger del Virunga, il commando ha iniziato a sparare e i ranger hanno subito risposto al fuoco, la sparatoria è andata avanti per oltre 40 minuti. Poi i rapitori hanno puntato alla guardia del corpo colpendolo alla gola e subito dopo hanno sparato all’ambasciatore e lo hanno colpito allo stomaco. Quando il commando è fuggito, ho preso in braccio l’ambasciatore e l’ho portato verso la strada per i soccorsi. È morto tra le mie braccia».
La testimonianza esclusiva degli ultimi minuti di vita di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci è di Baraka Dabu Jackson, il ragazzo congolese che in alcune foto compare con la maglietta rossa su un furgone accanto al corpo esanime del nostro ambasciatore poco dopo il drammatico agguato.
Dopo mesi in cui è stato minacciato di morte, torturato e picchiato, ha finalmente deciso di parlare. La sua testimonianza, oltre alla ricostruzione degli ultimi minuti di vita dei nostri due connazionali, permette di fare luce su alcuni elementi determinanti.
La lingua e le armi
«I rapitori erano una quindicina, parlavano Kinyarwanda (una lingua utilizzata in Rwanda, simile ma con accenti diversi da quella parlata in terra congolese al confine con Rwanda e Uganda, ndr) e avevano armi pesanti, più sofisticate di quelle dei ranger. L’attacco al convoglio era stato pianificato e ordinato dall’alto, non erano semplici banditi».
A corroborare la pista del rapimento organizzato, ordinato da qualcuno in posizione di potere, in opposizione alla tesi di una rapina finita male, c’è una seconda testimonianza, quella di Julien Kitsa, un commerciante che la mattina del 22 febbraio era con il suo banco di frutta e verdura al mercato di Kibumba.
È lui a trasportare l’autista Mustapha Milambo, la terza vittima dell’agguato, all’ospedale a bordo del suo scooter nel disperato e inutile tentativo di salvargli la vita. «Ero al mio chiosco quando sentimmo una prima esplosione seguita da una serie di colpi e capimmo subito che si trattava di uno scontro a fuoco. Mi sono precipitato a vedere cosa stesse succedendo, ho visto un gruppo di uomini armati e ho sentito uno di loro che al telefono diceva “Abbiamo rapito i bianchi”. Poi io e altri siamo andati verso la strada e abbiamo visto la macchina con Milambo in fin di vita dentro. Era stato colpito subito dagli uomini armati. Ho provato a portarlo all’ospedale di Nyiragongo ma sulla strada è morto. Io sono stato interrogato e subito arrestato».
Le due ricostruzioni porterebbero a escludere definitivamente, quindi, l’ipotesi di una rapina eseguita da un gruppo improvvisato di banditi come tanti in azione in quell’area e sbugiardano definitivamente l’arresto di alcuni malviventi locali (poco dopo tutti rilasciati) afferenti a una presunta “organizzazione”, sbandierato come la «svolta nelle indagini» da Felix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, in un’intervista rilasciata ad Africa News lo scorso maggio.
I dubbi sulla versione ufficiale
Ma, se l’intento del commando era di rapire i “bianchi” dell’equipaggio, perché una volta venuti a contatto con i ranger e compreso che la fuga era l’unica soluzione, uccidere Attanasio e Iacovacci prima di scappare? I dubbi restano e, se possibile, aumentano.
Anche perché la collaborazione tra i nostri inquirenti, quelli congolesi e quelli dell’indagine interna al Pam, è del tutto inesistente.
«Ho avuto modo di parlare con il Colonnello Omokoko, l’ufficiale a capo della stazione locale di polizia a Goma che è parte integrante dell’indagine in corso. Lui mi ha detto che l’indagine è sospesa per mancanza di risorse e ha anche aggiunto: “A dire il vero, mi sono dimenticato di quella pratica”», spiega la fonte.
Sul fronte Pam, le cose vanno nella stessa direzione ma con varie aggravanti.
A osservare i volti dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, in partenza per la missione che un’ora e mezza dopo avrebbe decretato la loro morte violenta, si nota che sono distesi.
Di certo erano consapevoli dei rischi che si corrono ad affrontare un tratto di strada – quello da Goma a Rutshuru – tra i più pericolosi del Congo e probabilmente del continente africano, ma si fidavano dell’approvazione data dal Pam, degli stretti protocolli di sicurezza che precedono simili viaggi specie se a essere coinvolti sono un ambasciatore, la sua guardia del corpo, e funzionari dello stesso Pam tra i quali l’italiano Rocco Leone, vicedirettore del Programma alimentare in Congo, e dell’esperienza e la conoscenza della situazione dei funzionari locali dell’organismo Onu.
Non potevano immaginare, come è stato accertato dagli inquirenti italiani, che il dirigente del distaccamento locale del Pam, il congolese Mansour Rwagaza, responsabile della sicurezza dell’area e della missione avesse nel frattempo violato i protocolli previsti dalle Nazioni Unite e falsificato i rapporti propedeutici a qualsiasi missione.
Nell’eventualità di trasporto di soggetti esterni al Pam, infatti, la comunicazione ai vertici va presentata almeno 5 giorni prima della missione stessa ai fini di valutare rischi e chiedere, nel caso, una scorta adeguata, e non, come ha fatto Rwagaza, la sera del 21 febbraio, a meno di 12 ore dalla partenza del convoglio. Se Attanasio e Iacovacci hanno viaggiato senza protezione e in veicoli normalissimi, quindi, lo si deve a questa grave mancanza. Ma c’è di più.
Un’altra bugia
Rwagaza, al fine di aggirare la burocrazia interna che, con così breve anticipo, prevede l’assegnazione di più veicoli solo nel caso in cui il convoglio sia formato esclusivamente da funzionari o impiegati del Pam, ha dichiarato che tutti i sette membri della missione erano effettivi dell’organismo Onu: Attanasio e Iacovacci, quindi, non risultano tra i componenti di quel drammatico viaggio.
Per questa serie scellerata di operazioni, il funzionario congolese del Pam è iscritto nel registro degli indagati dal sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco.
L’iscrizione di Rwagaza segna un punto di avanzamento nelle indagini ma lascia aperti ulteriori interrogativi. Il funzionario Pam ha agito così per semplice negligenza? O, per quanto l’ipotesi sia remota e non confermata da nessun inquirente, ha operato in complicità con i mandanti e gli assassini?
E soprattutto, è credibile che Rocco Leone, superiore del Rwagaza e, per la sua posizione apicale supervisore delle operazioni dell’organismo Onu nel paese africano, non sapesse di queste mancanze visto che lui stesso, peraltro, viaggiava nel convoglio?
Il giorno precedente all’agguato, inoltre, il 21 febbraio, era stata diramata un’allerta in tutta l’area. I militari dell’esercito regolare rimasti nella zona, proprio per questo motivo, erano ridotti ai minimi termini.
Come è stato possibile che Leone e i dirigenti locali del Pam ignorassero una simile situazione emergenziale al punto da dichiarare sicura la strada da percorrere e non sono ricorsi in extremis a una scorta armata e a veicoli blindati? Purtroppo, a meno di clamorosi quanto inaspettati cambiamenti di condotta da parte della dirigenza Pam, non lo sapremo mai.
Tutti i membri del Programma alimentare mondiale coinvolti a vario titolo nella vicenda, infatti, si avvalgono della facoltà di non rispondere trincerandosi dietro un presunto silenzio diplomatico che sarebbe loro garantito.
Nel frattempo, Leone, Rwagaza, e gli altri funzionari o operatori Pam che hanno partecipato alla missione, hanno lasciato il Congo e sono stati trasferiti in vari altri luoghi, senza che peraltro i nostri inquirenti ne fossero informati. Perché? Si sospetta che possano fornire versioni non autorizzate? Si teme per la loro sicurezza? A giudicare dal profilo Facebook su cui Rwagaza, ora in Madagascar, posta immagini, non si direbbe.
Serve un intervento deciso
Per avanzare nel percorso verso la verità, per quanto parziale, sugli omicidi del nostro ambasciatore e del carabiniere Iacovacci, ci sarà bisogno di un intervento deciso da parte del nostro paese.
Negli ultimi mesi, il presidente Tshisekedi è venuto tre volte in Italia ed è stato ricevuto dalle più alte cariche dello stato. I rapporti, quindi, sembrano buoni e frequenti: è lecito allora pretendere che il capo dello stato in cui è avvenuto il tragico attacco al nostro rappresentante diplomatico e istituzionale più alto e alla sua guardia del corpo, intervenga per riaprire la “pratica chiusa” e sollecitare una collaborazione immediata e fattiva dei magistrati congolesi con quelli italiani, che hanno inviato due rogatorie senza mai aver ricevuto risposta.
È incredibile, poi, che un organismo transnazionale come il Pam, con sede in Italia, si rifiuti categoricamente di collaborare con i nostri inquirenti, trasferisca, senza il minimo avviso, funzionari coinvolti o addirittura indagati, e si barrichi dietro la facoltà di non rispondere.
Abbiamo cercato di ottenere maggiori informazioni o di capire se si possa auspicare una migliore collaborazione in futuro, rivolgendoci all’ufficio stampa dell’organismo Onu, ma la risposta è stata: «Al momento il Pam non ha nulla da aggiungere».
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