Sono passati due anni esatti dalla firma degli accordi di Pretoria che misero fine al conflitto in Tigray, una delle guerre più sanguinose e devastanti degli ultimi decenni che, in altrettanti anni, dal novembre 2020 al novembre 2022, ha causato, secondo una stima dell’Unione Africana, circa 600mila morti, più di un milione di sfollati e danni per oltre 20 miliardi di dollari.

Le autorità federali etiopi inoltre, hanno bloccato per un lunghissimo tempo tutti gli aiuti umanitari alla regione, oltre a sospendere i servizi bancari, le telecomunicazioni e i collegamenti aerei. Il negoziato coronato dal successo tra il governo federale e i ribelli del Tigray rappresentati in prima istanza dal Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) è stato salutato con grande sollievo da tutto il mondo e, principalmente, da una popolazione stremata, che assisteva inerme a una violenza spaventosa e diffusa in un paese fino a qualche anno prima portato a modello di stabilità, con un primo ministro, Abiy Ahmed, Nobel per la pace nel 2019.

Due anni dopo la sigla dell’accordo, in realtà, c’è ben poco da festeggiare. L’intera regione più a nord dell’Etiopia, al confine con l’Eritrea, è certamente passata dalla guerra totale al silenzio delle armi, ma vive al suo interno uno stato di gravissime tensioni e fa fatica a rialzarsi da una prostrazione che ha lasciato strascichi pesanti. Nel frattempo, l’Etiopia, per un effetto domino scatenato dal conflitto in Tigray e per vecchi contrasti mai sopiti, conosce nuovi, gravi focolai di guerra nelle regioni dell’Ahmara e dell’Oromia.

Difficile da attuare 

Un primo, grosso problema alla base della problematica implementazione dell’accordo è che i belligeranti che avevano combattuto a fianco delle forze federali, in primis l’esercito eritreo e le milizie amhara, non sono stati invitati a Pretoria per negoziare l’accordo di pace che, ovviamente, non hanno mai firmato. E sebbene il trattato prevedesse il ritiro di tutte le truppe straniere o extra-regionali, tanti effettivi eritrei e amhara, sono ancora di stanza in Tigray e molte aree di confine rimangono occupate.

Centinaia di migliaia di tigrini, restano in uno stato di occupazione, quindi, e intere zone sono totalmente inaccessibili da forze dei governi federale e regionale. Un altro punto dell’accordo che stenta a decollare è la smobilitazione delle Forze di Difesa del Tigray: la mancanza di fiducia verso Addis Abeba e i dissidi interni rallentano un processo e mettono a rischio pace ed equilibri già molto fragili.

«Sono passati due anni dall’accordo», spiega Daryismaw Hailu, giornalista della Tmh (Tigray Media House), l’unica stazione televisiva che ha continuato, per quanto limitata, a trasmettere durante la guerra, «e la situazione in Tigray può essere descritta in due modi. In primo luogo, gli spari sono cessati, le strade sono state riaperte e i servizi di base vengono forniti. Ciò ha permesso di alleviare la grave fame che la popolazione intera soffriva e ridurre la mancanza di medicine. In secondo luogo, la crisi socioeconomica e psicologica causata dalla guerra continua ad aggravarsi. L’economia della nostra area, è lontana da una minima ripresa mentre il costo della vita e la crisi socio-economica del paese hanno reso la quotidianità molto difficile. La disoccupazione è dilagante e di conseguenza i giovani emigrano clandestinamente, la criminalità è aumentata e ci sono molti individui traumatizzati che mostrano gravi problemi mentali. Nel frattempo, come è noto, una buona fetta dei territori del Tigray è sotto il controllo delle forze eritree e delle forze amhara».

Il lungo incubo 

Il conflitto, cominciato nel novembre 2020 a seguito di un referendum per l’indipendenza celebrato in Tigray senza mai aver ricevuto l’avallo di Addis Abeba a cui il primo ministro avevo risposto inviando l’esercito, era stato inizialmente sottovalutato per vari motivi. Innanzitutto, perché il mondo stava combattendo un’altra guerra globale, quella contro la pandemia da coronavirus, e si immaginavano atteggiamenti più ponderati da parte di leader politici mondiali.

Poi per la fama di statista illuminato che Abiy si era guadagnato grazie alle riforme innescate, alla pace con l’arcinemico eritreo e la conquista del premio Nobel per la pace nel 2019. Sono bastati pochi mesi, però, per smentire ogni previsione. È diventato presto chiaro che il premier etiope non sarebbe arretrato di un centimetro e avrebbe utilizzato ogni mezzo a sua disposizione, compresa la nuova amicizia con l’Eritrea, per piegare i ribelli, mentre, dall’altro lato, il Tplf mostrava grandi capacità belliche arrivando a lambire la capitale Addis Abeba sul finire del 2021.

«La guerra», dice il vescovo dell’eparchia cattolica di Adigrat Tesfay Medhin, titolare della diocesi che comprende tutto il Tigray, «è stata come un film dell’orrore, peccato che non si è trattato di fiction e ancora adesso viviamo gli strascichi di un incubo. Lo definirei un esperimento macabro del XXI secolo in cui non è stata risparmiata alcuna crudeltà. Il sollievo che ha portato l’accordo di Pretoria, però, rischia di svanire: un terzo della regione che coincide con la mia diocesi, è inaccessibile per l’occupazione eritrea, 515 scuole non sono mai state riaperte e ci sono decine di migliaia di ragazzi che non vanno a scuola dai tempi della pandemia, oltre quattro anni. Stiamo perdendo migliaia di giovani che emigrano perchè non vedono altre vie».

Le tensioni nel Tplf

Ma c’è un altro problema che grava sulla regione. Le tensioni che serpeggiano da mesi all’interno del Tplf, nell’agosto scorso sono esplose. La leadership del partito attorno al presidente Debretsion Gebremichael si è sostanzialmente distaccata dai principali esponenti del Tplf a capo dell’Amministrazione regionale provvisoria del Tigray del presidente nominato Getachew Reda, istituita dalla camera alta del parlamento etiope nel 2023 per esercitare le funzioni di governo previste dall’accordo di Pretoria. Ciascuna parte considera l’altra un’entità illegale.

Le divergenze interne al Tplf, come riporta la rivista African Arguments, non sono nuove nella sua quasi cinquantennale evoluzione da movimento di guerriglia a partito politico. Una tra quelle più profonde è avvenuta nel 2001, dopo la guerra con l’Eritrea e alla luce di una valutazione interna dei primi dieci anni di potere del partito con visioni distanti tra puristi leninisti e nuove impostazioni ideologiche.

Le tensioni interne hanno suscitato addirittura il timore che possano esplodere nuove violenze nella regione in un momento in cui, come già detto, la situazione economica e sociale degli altopiani settentrionali rimane disastrosa.

«Il disaccordo su questioni politiche e la lotta per il potere», riprende Daryismaw Hailu, «in particolare la divisione interna al TPLF, hanno impedito di risolvere i problemi della popolazione del Tigray e di far tornare gli sfollati nei loro luoghi secondo l’accordo. I dissidi interni sono diventati un ottimo assist per tutte quelle forze che non vogliono che l’accordo di Pretoria sia pienamente attuato»

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