Mentre l’ex presidente Usa invita la Russia ad attaccare i paesi della Nato che investono meno del 2 per cento in difesa, il progetto di un esercito comune e di un settore industriale armonizzato riceve sempre meno sostegno
Donald Trump non è ancora diventato il candidato ufficiale dei repubblicani, ma le sue dichiarazioni già gettano un’ombra inquietante sull’Europa. L’ex presidente ha detto che «incoraggerà» la Russia «a fare quello che vuole» con i paesi Nato che investono meno del 2 per cento del proprio Pil in difesa, minacciando di non rispettare la clausola di difesa collettiva prevista dall’artico 5. Già in passato Trump aveva pronunciato parole dure contro la Nato, arrivando a presagire l’uscita degli Usa dall’Alleanza atlantica, ma questa nuova dichiarazione ha allarmato le cancellerie europee, oltre al segretario generale Jens Stoltenberg.
Infatti i paesi dell’Ue non sono preparati per affrontare da soli l’eventuale minaccia della Russia e il progetto di una difesa comune è sempre più lontano dal diventare realtà. Di recente il tema era tornato al centro del dibattito grazie al ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, che in un’intervista alla Stampa ha ricordato l’importanza di una maggiore cooperazione nel campo della difesa in Europa, nonché la necessità di un esercito comune, «una condizione fondamentale per avere un’efficace politica estera europea».
Alle dichiarazioni di Tajani, però, hanno fatto seguito solo smentite, segno che l’Italia è ormai l’unica a chiedere una riforma decisamente poco fortunata. Persino Francia e Germania sono sempre più restie a esprimersi a sostegno di un esercito comune, nonostante proprio Berlino e Parigi siano stati a lungo i maggiori sostenitori di una politica di difesa comune. Lo scoppio della guerra in Ucraina sembrava il momento migliore per ridiscutere del progetto e arrivare finalmente a un risultato concreto, ma negli ultimi due anni non si sono registrati passi avanti.
A rimarcare lo scarso sostegno verso un esercito comune sono stati anche Slovenia, Spagna, Danimarca e Polonia. Per il ministro della Difesa spagnolo, se già raggiungere un accordo quando gli stati Ue erano 12 si è dimostrato impossibile, riuscirci adesso con 27 paesi membri è uno scenario irrealistico. Sulla stessa linea di pensiero si sono posizionate anche Lubiana, Varsavia e Copenaghen, per le quali l’appartenenza alla Nato è più che sufficiente per garantire la difesa del Vecchio continente.
È in quest’ottica che rientra l’accordo siglato tra Polonia, Germania e Paesi Bassi per migliorare il dispiegamento delle truppe da ovest verso est e rafforzare così il fianco orientale della Nato. Uno dei problemi dell’Alleanza riguarda proprio la mobilità e la stessa Unione europea sta investendo per l’ammodernamento e l’armonizzazione delle sue vie di trasporto ferroviarie e su gomma.
In realtà l’ostilità della maggior parte dei paesi europei all’idea di una difesa comune non è una sorpresa. Secondo il report pubblicato dall’Agenzia europea per la difesa a fine 2022, la creazione di un esercito europeo ha ormai perso il suo fascino ed è sempre meno apprezzata.
L’industria militare
Ma i paesi dell’Unione si sono espressi anche contro una riforma dell’industria militare che preveda l’armonizzazione del settore e lo spostamento in parte del potere decisionale nelle mani della Commissione. Gli stati membri, quindi, hanno già fatto capire che non sosterranno la proposta di riforma che la Commissione si appresta a presentare e che ha come modello di riferimento gli Stati Uniti.
L’idea sarebbe quella di creare una versione europea del Foreign Military Sales (Fms) statunitense, il programma attraverso il quale gli Usa vendono materiali d’armamento e servizi a paesi terzi facendo leva sul loro peso geopolitico e tramite finanziamenti governativi. Lo stato dunque sponsorizza e sostiene l’export della propria industria di aerospazio, difesa e sicurezza, stipulando con il cliente estero un contratto da governo a governo e rendendo così più agevole le vendite.
Per Italia, Francia, Germania e Svezia la semplificazione dell’export sarebbe una buona notizia, ma ciò non deve intaccare la capacità decisionale dei singoli paesi, né modificare la logica di concorrenza del mercato comunitario. Eppure un’armonizzazione della politica industriale europea eviterebbe una duplicazione dei programmi, come nel caso dei jet, e il conseguente spreco di soldi pubblici, a vantaggio anche della competitività dei prodotti europei, non ancora ai livelli di quelli americani.
Intanto gli stati europei non stanno perdendo tempo e hanno allentato le restrizioni all’export imposte negli ultimi anni nei confronti di Turchia e Arabia saudita nonostante la mancanza di miglioramenti in termini di rispetto dei diritti umani e dei valori democratici in entrambi i paesi. Lo stesso governo italiano sta modificando la legge 185/90 sulle esportazioni, rendendo il processo ancora più opaco e spostando nelle mani della politica, anziché di un organo tecnico autonomo, tutto il potere decisionale. In questo modo fare affari con le dittature sarà ancora più semplice, mentre il rispetto dei diritti umani sarà definitivamente messo da parte.
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